PERIODO STORICO
Il Seicento è il secolo della preponderanza spagnola in Europa e particolarmente in Italia, dove, tranne qualche moto popolare suggerito dal disagio economico più che da precise idealità politiche (Masaniello a Napoli, Giuseppe D'Alessi a Palermo) l'atmosfera è di completa sottomissione alla Spagna, la cui influenza si fa sentire anche in quegli Stati che non sono soggetti alla sua autorità.
Solo da parte del Ducato di Savoia di profila una politica di maggiore indipendenza e talvolta di opposizione.
Gli avvenimenti europei più notevoli nella prima metà del Seicento sono la Guerra dei Trent'anni e la Rivoluzione inglese.
La Guerra dei Trent'anni è una nuova manifestazione delle lotte religiose, in cui, come sempre, si inseriscono precisi moventi politici. Nel suo corso (1618-1648), essa vede schierati gli uni contro gli altri i principali Stati dell'Europa. La conclude la pace di Westfalia, che segna il tramonto dell'egemonia degli Asburgo, il trionfo della Francia, il riconoscimento definitivo dell'indipendenza dell'Olanda e, sul piano religioso, la conferma dei diritti delle confessioni extracattoliche.
Ormai la Francia, anche per merito dei suoi grandi ministri (il cardinale di Richelieu e il cardinale Mazzarino), inizia la sua ascesa al ruolo di grande potenza, contrapponendosi in tal modo alla preponderanza spagnola.
In Inghilterra, intanto, a conclusione della guerra civile provocata dalla limitazione dei diritti del Parlamento da parte di Carlo I Stuart, nel 1648 la monarchia è deposta e l'anno successivo il re viene decapitato, mentre il potere è assunto da Oliviero Cromwell col titolo di Lord Protector.
Sotto il Cromwell si ha l'Atto di navigazione (1651), che costituisce la solenne affermazione dell'egemonia dell'Inghilterra sui mari.
Alla morte del Cromwell (1658) cui succede per breve tempo il figlio Riccardo, il popolo inglese restaura nel 1660 la monarchia con Carlo II Stuart. Morto quest'ultimo (1685) sale al trono Giacomo II, sotto il quale si ha la seconda rivoluzione che vede l'avvento al potere di Guglielmo III d'Orange, marito di Maria, figlia di Giacomo II.
In questa occasione, il Parlamento inglese fa giurare ai nuovi sovrani la Dichiarazione dei Diritti, che riconferma le tradizionali prerogative delle due Camere e dà all'Inghilterra la fisionomia di monarchia costituzionale che manterrà in futuro.
Grandeggia, nella seconda metà del Seicento, la figura del re di Francia Luigi XIV (1643-1715) che durante i settantadue anni del suo regno assicura al suo Paese un incontestabile primato in Europa. Sotto di lui l'assolutismo monarchico raggiunge il suo culmine.
Per quanto riguarda l'Italia il trattato di Cateau-Cambrèsis assegnò alla Spagna il dominio su quasi tutta l'Italia, che fu il peggiore fra quanti essa dovette sopportare: scomparve ogni sentimento di indipendenza e di libertà politica; il fiscalismo avvilì i sudditi e impoverì il paese; industria e commercio decaddero, le terre furono abbandonate; la popolazione diminuì paurosamente.
Ma non meno che nel campo materiale, quel triste governo influì su quello morale: la servitù insegnò a mentire ed adulare, la prepotenza dei dominatori fu imitata dai signorotti italiani che servivano vergognosamente i potenti e opprimevano i fratelli che stavano in basso.
Le leggi c'erano ma non c'era chi le facesse rispettare, sicchè regnava l'arbitrio e la vendetta privata. Al posto del sentimento religioso dominava l'ipocrisia. Ogni ideale era scomparso.
Le pagine dei promessi Sposi del Manzoni sono la più luminosa testimonianza di questo periodo storico.
Sursa:altervista
marți, 20 ianuarie 2009
PERSONAGGI DEI PROMESSI SPOSI
Personaggi dei Promessi Sposi
Elenco di tutti i personaggi
Renzo
Giovane che, nato e cresciuto nel limitato ambiente del suo paese, conosce la vita solo nei suoi aspetti più semplici e consueti, la fatica del lavoro e la forza degli affetti. Rimasto orfano in giovane età, è abituato a badare a se stesso e si è creato un onesto lavoro, una sicurezza per sé e per la sposa prescelta, Lucia. Di indole buona, ha tuttavia un temperamento impetuoso, incline a scatti e a ribellioni improvvise, che hanno però la durata dei temporali di maggio, che presto vengono e presto si dissipano. Si tratta di esuberanza, più che di prepotenza. Renzo non è privo di una naturale intelligenza e furbizia che lo aiutano nei momenti critici ma che forse non bastano quando si trova immerso nei problemi al di fuori del suo paesello, perso tra le mura della città. Renzo è incline a giudicare il prossimo con ottimismo, ma quando è sicuro di essere oggetto d'ingiustizie si ribella, mettendo in moto la sua scaltrezza. Contro il rivale, Don Rodrigo, si scaglia furiosamente, ma alla fine il suo equilibrio e la sua fede in Dio lo inducono a perdonare.
Lucia
Giovane donna, le cui caratteristiche, fisiche e morali, sono tra le meno appariscenti che ci sia dato attribuire ad un soggetto umano ed a un personaggio di romanzo. Lucia non è passiva come potrebbe sembrare, ella si oppone con tanta forza a tutto ciò che la sua coscienza nopn può approvare in modo attivo, agendo in una direzione sola, quella del bene, usando le armi della fede, della preghiera e del lavoro. Ragazza umile, del popolo, alla quale la modesta origine non impedisce di albergare nell'animo una nobiltà di sentimenti e di ideali a fare invidia a persone di più alta nascita e cultura, ella è conscia dei suoi doveri di donna e di cristiana, che una strana sorte ha portato in mezzo ad una serie di loschi intrighi, di terribili vicende. Sensibile al richiamo degli affetti e alla voce della nostalgia, preda della paura nei momenti più drammatici, non si abbandona mai alla disperazione, ma istintivamente trova dentro di sé le risorse per riacquistare l'equilibrio e la pace dello spirito.
Agnese
Tipo medio di donna in età, come è possibile trovarne nei paesi lombardi. Il suo carattere deciso e sbrigativo, unito ad un'esperienza di vita che forse ella sopravvaluta, la porta ad una sicurezza di giudizio che non sempre si rivela esatta; la sua sollecitudine e l'amore per la figlia Lucia, velati da un riserbo proprio delle persone abituate ad una vita semplice e ridotta ai valori essenziali, la sua facilità di parola e la sua spontaneità, costituiscono un marchio inconfondibile. Profilo vivo e veritiero, riesce subito simpatica per la sollecitudine con cui si dispone ad aiutare la figlia nel raggiungimento della sua felicità. Anche se, spinta da troppa sicurezza, è portata a vedere solo una faccia della realtà, il suo ottimismo la induce ad escogitare sempre nuove soluzioni per far trionfare la giustizia e il bene di Lucia.
Padre Cristoforo
Frate cappuccino del convento di Pescarenico, poco distante dal paese dei due promessi sposi, egli è la guida spirituale cui si affida Lucia. La sua indole ribelle, ma al tempo stesso generosa è già delineata fin da quando, non ancora frate, porta il nome di Lodovico. Abituato sin da giovane all'agiatezza e al lusso, cresce alimentando un'abituale fierezza che lo porta, come il padre, a scagliarsi contro l'ostilità del mondo aristocratico e vanesio, conducendo una guerra aperta contro i suoi rivali e schierandosi a fianco dei deboli che avessero subito da essi un sopruso. Questo suo atteggiamento lo porterà al famoso duello dal quale uscirà con la convinzione della sua vocazione. La figura del frate grandeggia, non come quella di un essere superiore, ma come quella di un uomo tra gli uomini, che ha vissuto le sue esperienze e ha formato il suo carattere proprio in mezzo al complicato mondo seicentesco. In lui, immagine viva e vera, si può vedere il simbolo dell'eterna lotta tra il bene e il male, tra forza materiale e forza spirituale che, sorretta da una fede senza confini, è destinata a trionfare. Quello che egli prima operava a servizio di una giustizia umana, ora opera a servizio di quella divina e proprio in questa continuità risiede la reale umanità del personaggio. L'ultima immagine che abbiamo di lui, con i segni della fine sul volto, è quella al lazzaretto, a servire i bisognosi come in tutta la sua vita.
Cardinal Federigo
All'epoca della vicenda è Arcivescovo di Milano e lo troviamo in visita al paese dell'Innominato nei giorni di Pentecoste. Uomo dotato di eccezionali risorse di volontà, intelligenza e zelo religioso, egli sa veramente applicare alla vita i principi della religione cattolica, offrendo sempre un valido esempio del bene operare. Modesto, frugale, umilissimo, deve lottare contro il suo stesso ambiente per affermare i suoi principi e dedica tutta la sua vita alla carità e allo studio, tanto da essere considerato uno degli uomini più dotti del secolo. La solennità del personaggio scaturisce dall'attesa del paese in festa, il suo valore dai colloqui, prima con l'Innominato, poi con Don Abbondio, la sua modestia e umiltà dall'incontro con Lucia, con la gente del paese e con i bambini. Lo ritroviamo, più tardi, ad aiutare la popolazione durante la carestia e la peste. A differenza degli altri "buoni" del romanzo, per i quali la bontà è una conquista, egli è libero umanamente da ogni debolezza, integro, grande, perfetto.
Innominato
L'Innominato è una delle figure psicologicamente più complesse e interessanti del romanzo. Personaggio storicamente esistito nel quale l'autore fa svolgere un dramma spirituale che affonda le sue radice nei meandri dell'animo umano. L'Innominato, figura malvagia la cui malvagità più che ripugnanza forse incute rispetto, è il potente cui Don Rodrigo si rivolge per attuare il piano di rapire Lucia. In preda a una profonda crisi spirituale, l'Innominato scorge nell'incontro con Lucia un segno, una luce che lo porta alla conversione; solo in un animo simile, incapace di vie di mezzo, una crisi interiore può portare a una trasformazione integrale. Durante la famosa notte in cui Lucia è prigioniera nel castello, la disperazione dell'Innominato giunge al culmine, tanto da farlo pensare al suicidio, ma ecco che il pensiero di Dio e le parolo di Lucia lo salvano e gli mostrano la via della misericordia e del perdono.
Don Rodrigo
Signorotto invaghitosi di Lucia che, solo per capriccio, vuole avere per sé. Egli rappresenta l'espressione umana e il simbolo del suo secolo; non riveste una carica particolare, ma è uno dei tanti nobilotti dell'epoca, uno qualsiasi. Il suo carattere, per niente deciso e fermo, riflette passivamente e fedelmente le magagne e le ingiustizie sociali dell'epoca in cui è chiamato a vivere. Di lui non viene data una descrizione vera e propria, né fisica né morale, sebbene sia lui il responsabile di tutta la vicenda; noi lo conosciamo attraverso i simboli e gli attributi della sua forza e della sua autorità, il suo palazzo, i suoi servi e le sue azioni. Cattivo genio di tutta l'azione, sicuro che la sua posizione sociale e gli appoggi di persone influenti gli garantiscono l'impunità, conosce solo una legge, quella del più forte. Pur essendo malvagio, non ha il coraggio delle sue azioni, preoccupato dalle conseguenze che esse hanno. Dopo le minacce di Padre Cristoforo, probabilmente rinuncerebbe volentieri al piano malvagio, ma persevera solo per questione di puntiglio e orgoglio vedendosi costretto a ricorrere all'aiuto di chi è più malvagio di lui, di chi veramente sa fare il male, l'Innominato. Purtroppo la conversione di quest'ultimo capovolge la vicenda e Don Rodrigo sarà cpstretto ad andarsene, a nascondersi, fino a quando la peste non lo coglierà e lo condurrà alla morte nel lazzaretto di Milano.
Don Abbondio
Curato del paese di Renzo e Lucia, dovrebbe unirli in matrimonio ma, minacciato da Don Rodrigo, cerca di evitare a tutti i costi di celebrare le nozze e lo farà solo alla fine del romanzo, quando ogni pericolo sarà svanito. La vita di Don Abbondio si svolge tutta nell'orbita di Don Rodrigo e sotto l'influsso del suo principale difetto, la paura. La sua storia non è altro che la storia della sua paura e di tutte le manifestazioni attraverso le quali essa si rivela. Gretto, meschino, egoista fino all'impossibile, non è uomo cattivo, ma nemmeno buono; egli vive come in un limbo tormentato dalla paura; vede ostacoli e insidie anche dove non ci sono e l'angoscia e la preoccupazione di riuscire ad uscirne indenne lo rende incapace di prendere posizione tra il bene e il male. Anche quando, per un breve attimo, le parole del Cardinale, sembrano risvegliare in lui una luce, questa non riesce a giungere agli strati superiori della sua coscienza. Il suo carattere, oltre a creare vari spunti di comicità, non è privo di una certa grettezza che egli rivela per la soddisfazione dello scampato pericolo.
Gertrude
La monaca di Monza, che accoglie Lucia nella sua fuga dal paese natio per sfuggire a Don Rodrigo, è un personaggio che l'autore descrive ampiamente come se nel racconto della vita della donna egli cerchi in qualche modo di trovare una giustificazione al male da lei fatto e al male che ancora farà. La vocazione imposta e non scelta rende Gertrude donna infelice e soggetta a peccare ma allo stesso tempo in ogni suo gesto si ravvisa come un senso di colpevolezza che serpeggia in mezzo ai grovigli e alle passioni che agitano il suo spirito. E' proprio questo sordo conflitto tra abiezione e senso di colpa che danno al personaggio della Monaca di Monza la sua tragicità. Ella non ha ancora superato i problemi che aveva da bambina, problemi nati dal vedersi negare la vita cui era destinata per la sua indole e dal non essere stata capace di lottare per far valere i suoi desideri. L'invidia che provava da bambina per le sue compagne più fortunate di lei la prova ancora per chi, come Lucia, conduce una vita nel mondo a lei precluso e tale invidia la porta a compiangersi e a vendicarsi come può, usando la sua autorità e compiendo il male.
Elenco di tutti i personaggi
Renzo
Giovane che, nato e cresciuto nel limitato ambiente del suo paese, conosce la vita solo nei suoi aspetti più semplici e consueti, la fatica del lavoro e la forza degli affetti. Rimasto orfano in giovane età, è abituato a badare a se stesso e si è creato un onesto lavoro, una sicurezza per sé e per la sposa prescelta, Lucia. Di indole buona, ha tuttavia un temperamento impetuoso, incline a scatti e a ribellioni improvvise, che hanno però la durata dei temporali di maggio, che presto vengono e presto si dissipano. Si tratta di esuberanza, più che di prepotenza. Renzo non è privo di una naturale intelligenza e furbizia che lo aiutano nei momenti critici ma che forse non bastano quando si trova immerso nei problemi al di fuori del suo paesello, perso tra le mura della città. Renzo è incline a giudicare il prossimo con ottimismo, ma quando è sicuro di essere oggetto d'ingiustizie si ribella, mettendo in moto la sua scaltrezza. Contro il rivale, Don Rodrigo, si scaglia furiosamente, ma alla fine il suo equilibrio e la sua fede in Dio lo inducono a perdonare.
Lucia
Giovane donna, le cui caratteristiche, fisiche e morali, sono tra le meno appariscenti che ci sia dato attribuire ad un soggetto umano ed a un personaggio di romanzo. Lucia non è passiva come potrebbe sembrare, ella si oppone con tanta forza a tutto ciò che la sua coscienza nopn può approvare in modo attivo, agendo in una direzione sola, quella del bene, usando le armi della fede, della preghiera e del lavoro. Ragazza umile, del popolo, alla quale la modesta origine non impedisce di albergare nell'animo una nobiltà di sentimenti e di ideali a fare invidia a persone di più alta nascita e cultura, ella è conscia dei suoi doveri di donna e di cristiana, che una strana sorte ha portato in mezzo ad una serie di loschi intrighi, di terribili vicende. Sensibile al richiamo degli affetti e alla voce della nostalgia, preda della paura nei momenti più drammatici, non si abbandona mai alla disperazione, ma istintivamente trova dentro di sé le risorse per riacquistare l'equilibrio e la pace dello spirito.
Agnese
Tipo medio di donna in età, come è possibile trovarne nei paesi lombardi. Il suo carattere deciso e sbrigativo, unito ad un'esperienza di vita che forse ella sopravvaluta, la porta ad una sicurezza di giudizio che non sempre si rivela esatta; la sua sollecitudine e l'amore per la figlia Lucia, velati da un riserbo proprio delle persone abituate ad una vita semplice e ridotta ai valori essenziali, la sua facilità di parola e la sua spontaneità, costituiscono un marchio inconfondibile. Profilo vivo e veritiero, riesce subito simpatica per la sollecitudine con cui si dispone ad aiutare la figlia nel raggiungimento della sua felicità. Anche se, spinta da troppa sicurezza, è portata a vedere solo una faccia della realtà, il suo ottimismo la induce ad escogitare sempre nuove soluzioni per far trionfare la giustizia e il bene di Lucia.
Padre Cristoforo
Frate cappuccino del convento di Pescarenico, poco distante dal paese dei due promessi sposi, egli è la guida spirituale cui si affida Lucia. La sua indole ribelle, ma al tempo stesso generosa è già delineata fin da quando, non ancora frate, porta il nome di Lodovico. Abituato sin da giovane all'agiatezza e al lusso, cresce alimentando un'abituale fierezza che lo porta, come il padre, a scagliarsi contro l'ostilità del mondo aristocratico e vanesio, conducendo una guerra aperta contro i suoi rivali e schierandosi a fianco dei deboli che avessero subito da essi un sopruso. Questo suo atteggiamento lo porterà al famoso duello dal quale uscirà con la convinzione della sua vocazione. La figura del frate grandeggia, non come quella di un essere superiore, ma come quella di un uomo tra gli uomini, che ha vissuto le sue esperienze e ha formato il suo carattere proprio in mezzo al complicato mondo seicentesco. In lui, immagine viva e vera, si può vedere il simbolo dell'eterna lotta tra il bene e il male, tra forza materiale e forza spirituale che, sorretta da una fede senza confini, è destinata a trionfare. Quello che egli prima operava a servizio di una giustizia umana, ora opera a servizio di quella divina e proprio in questa continuità risiede la reale umanità del personaggio. L'ultima immagine che abbiamo di lui, con i segni della fine sul volto, è quella al lazzaretto, a servire i bisognosi come in tutta la sua vita.
Cardinal Federigo
All'epoca della vicenda è Arcivescovo di Milano e lo troviamo in visita al paese dell'Innominato nei giorni di Pentecoste. Uomo dotato di eccezionali risorse di volontà, intelligenza e zelo religioso, egli sa veramente applicare alla vita i principi della religione cattolica, offrendo sempre un valido esempio del bene operare. Modesto, frugale, umilissimo, deve lottare contro il suo stesso ambiente per affermare i suoi principi e dedica tutta la sua vita alla carità e allo studio, tanto da essere considerato uno degli uomini più dotti del secolo. La solennità del personaggio scaturisce dall'attesa del paese in festa, il suo valore dai colloqui, prima con l'Innominato, poi con Don Abbondio, la sua modestia e umiltà dall'incontro con Lucia, con la gente del paese e con i bambini. Lo ritroviamo, più tardi, ad aiutare la popolazione durante la carestia e la peste. A differenza degli altri "buoni" del romanzo, per i quali la bontà è una conquista, egli è libero umanamente da ogni debolezza, integro, grande, perfetto.
Innominato
L'Innominato è una delle figure psicologicamente più complesse e interessanti del romanzo. Personaggio storicamente esistito nel quale l'autore fa svolgere un dramma spirituale che affonda le sue radice nei meandri dell'animo umano. L'Innominato, figura malvagia la cui malvagità più che ripugnanza forse incute rispetto, è il potente cui Don Rodrigo si rivolge per attuare il piano di rapire Lucia. In preda a una profonda crisi spirituale, l'Innominato scorge nell'incontro con Lucia un segno, una luce che lo porta alla conversione; solo in un animo simile, incapace di vie di mezzo, una crisi interiore può portare a una trasformazione integrale. Durante la famosa notte in cui Lucia è prigioniera nel castello, la disperazione dell'Innominato giunge al culmine, tanto da farlo pensare al suicidio, ma ecco che il pensiero di Dio e le parolo di Lucia lo salvano e gli mostrano la via della misericordia e del perdono.
Don Rodrigo
Signorotto invaghitosi di Lucia che, solo per capriccio, vuole avere per sé. Egli rappresenta l'espressione umana e il simbolo del suo secolo; non riveste una carica particolare, ma è uno dei tanti nobilotti dell'epoca, uno qualsiasi. Il suo carattere, per niente deciso e fermo, riflette passivamente e fedelmente le magagne e le ingiustizie sociali dell'epoca in cui è chiamato a vivere. Di lui non viene data una descrizione vera e propria, né fisica né morale, sebbene sia lui il responsabile di tutta la vicenda; noi lo conosciamo attraverso i simboli e gli attributi della sua forza e della sua autorità, il suo palazzo, i suoi servi e le sue azioni. Cattivo genio di tutta l'azione, sicuro che la sua posizione sociale e gli appoggi di persone influenti gli garantiscono l'impunità, conosce solo una legge, quella del più forte. Pur essendo malvagio, non ha il coraggio delle sue azioni, preoccupato dalle conseguenze che esse hanno. Dopo le minacce di Padre Cristoforo, probabilmente rinuncerebbe volentieri al piano malvagio, ma persevera solo per questione di puntiglio e orgoglio vedendosi costretto a ricorrere all'aiuto di chi è più malvagio di lui, di chi veramente sa fare il male, l'Innominato. Purtroppo la conversione di quest'ultimo capovolge la vicenda e Don Rodrigo sarà cpstretto ad andarsene, a nascondersi, fino a quando la peste non lo coglierà e lo condurrà alla morte nel lazzaretto di Milano.
Don Abbondio
Curato del paese di Renzo e Lucia, dovrebbe unirli in matrimonio ma, minacciato da Don Rodrigo, cerca di evitare a tutti i costi di celebrare le nozze e lo farà solo alla fine del romanzo, quando ogni pericolo sarà svanito. La vita di Don Abbondio si svolge tutta nell'orbita di Don Rodrigo e sotto l'influsso del suo principale difetto, la paura. La sua storia non è altro che la storia della sua paura e di tutte le manifestazioni attraverso le quali essa si rivela. Gretto, meschino, egoista fino all'impossibile, non è uomo cattivo, ma nemmeno buono; egli vive come in un limbo tormentato dalla paura; vede ostacoli e insidie anche dove non ci sono e l'angoscia e la preoccupazione di riuscire ad uscirne indenne lo rende incapace di prendere posizione tra il bene e il male. Anche quando, per un breve attimo, le parole del Cardinale, sembrano risvegliare in lui una luce, questa non riesce a giungere agli strati superiori della sua coscienza. Il suo carattere, oltre a creare vari spunti di comicità, non è privo di una certa grettezza che egli rivela per la soddisfazione dello scampato pericolo.
Gertrude
La monaca di Monza, che accoglie Lucia nella sua fuga dal paese natio per sfuggire a Don Rodrigo, è un personaggio che l'autore descrive ampiamente come se nel racconto della vita della donna egli cerchi in qualche modo di trovare una giustificazione al male da lei fatto e al male che ancora farà. La vocazione imposta e non scelta rende Gertrude donna infelice e soggetta a peccare ma allo stesso tempo in ogni suo gesto si ravvisa come un senso di colpevolezza che serpeggia in mezzo ai grovigli e alle passioni che agitano il suo spirito. E' proprio questo sordo conflitto tra abiezione e senso di colpa che danno al personaggio della Monaca di Monza la sua tragicità. Ella non ha ancora superato i problemi che aveva da bambina, problemi nati dal vedersi negare la vita cui era destinata per la sua indole e dal non essere stata capace di lottare per far valere i suoi desideri. L'invidia che provava da bambina per le sue compagne più fortunate di lei la prova ancora per chi, come Lucia, conduce una vita nel mondo a lei precluso e tale invidia la porta a compiangersi e a vendicarsi come può, usando la sua autorità e compiendo il male.
LA STRUTTURA DE «I PROMESSI SPOSI»
LA STRUTTURA DE «I PROMESSI SPOSI»
Prologo
Introduzione.
Scambio della promessa di matrimonio fra Renzo e Lucia (parte inferibile dal testo all’inizio del III capitolo).
Don Rodrigo scommette con don Attilio che farà sua Lucia (capitolo III: don Rodrigo-Lucia-Attilio nel racconto di Lucia).
Orientamento
Descrizione del primo capitolo.
Azione complicante
Intimidazione rivolta dai bravi a don Abbondio affinché non celebri il matrimonio.
Peripezie
Tentativo di soluzione di Renzo => Azzecca-garbugli (capitolo III).
Tentativo di soluzione di padre Cristoforo => don Rodrigo (capitoli V e VI).
Tentativo di soluzione di Renzo (e Lucia) => matrimonio segreto (capitolo VIII).
||
Fallimento dei tentativi e divisione degli amanti (capitolo VIII-IX)
||
||
Renzo a Milano (capitoli dall’XI al XVI)
Lucia a Monza (capitoli IX-X...)
||
||
Renzo viene scambiato per un agitatore della rivolta e arrestato (capitolo XV)
Lucia è rapita dall’Innominato (capitolo XX)
||
||
Renzo riesce a liberarsi (capitolo XVI)
Le sue preghiere «convertono» l’Innominato (capitolo XXI)
||
||
Renzo raggiunge l’Adda e il Bergamasco (capitolo XVI)
Lucia è liberata e ospite di donna Prassede e don Ferrante (capitolo XXV)
||
||
Scoppia l’epidemia di peste (capitoli XXXI e seguenti)
||
||
Renzo si ammala (capitolo XXXIII)
Lucia si ammala
Don Rodrigo si ammala (capitolo XXXIII)
Scioglimento
Renzo, guarito, si reca a Milano (capitolo XXXIV) dove ritrova Lucia (capitolo XXXVI).
Renzo incontra don Rodrigo agonizzante e lo perdona (capitolo XXXV).
Fra Cristoforo scioglie il voto di castità pronunciato da Lucia (capitolo XXXVI).
Renzo e Lucia si preparano al matrimonio (capitoli XXXVII e XXXVIII).
Coda
Commiato manzoniano ai suoi lettori: captatio benevolentiae10 relativamente alla «storia» narrata (capitolo XXXVIII).
Vicende di Renzo e Lucia sposi: i figli numerosi; i giudizi sulla bellezza di Lucia (capitolo XXXVIII).
Prologo
Introduzione.
Scambio della promessa di matrimonio fra Renzo e Lucia (parte inferibile dal testo all’inizio del III capitolo).
Don Rodrigo scommette con don Attilio che farà sua Lucia (capitolo III: don Rodrigo-Lucia-Attilio nel racconto di Lucia).
Orientamento
Descrizione del primo capitolo.
Azione complicante
Intimidazione rivolta dai bravi a don Abbondio affinché non celebri il matrimonio.
Peripezie
Tentativo di soluzione di Renzo => Azzecca-garbugli (capitolo III).
Tentativo di soluzione di padre Cristoforo => don Rodrigo (capitoli V e VI).
Tentativo di soluzione di Renzo (e Lucia) => matrimonio segreto (capitolo VIII).
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Fallimento dei tentativi e divisione degli amanti (capitolo VIII-IX)
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Renzo a Milano (capitoli dall’XI al XVI)
Lucia a Monza (capitoli IX-X...)
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Renzo viene scambiato per un agitatore della rivolta e arrestato (capitolo XV)
Lucia è rapita dall’Innominato (capitolo XX)
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Renzo riesce a liberarsi (capitolo XVI)
Le sue preghiere «convertono» l’Innominato (capitolo XXI)
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Renzo raggiunge l’Adda e il Bergamasco (capitolo XVI)
Lucia è liberata e ospite di donna Prassede e don Ferrante (capitolo XXV)
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Scoppia l’epidemia di peste (capitoli XXXI e seguenti)
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Renzo si ammala (capitolo XXXIII)
Lucia si ammala
Don Rodrigo si ammala (capitolo XXXIII)
Scioglimento
Renzo, guarito, si reca a Milano (capitolo XXXIV) dove ritrova Lucia (capitolo XXXVI).
Renzo incontra don Rodrigo agonizzante e lo perdona (capitolo XXXV).
Fra Cristoforo scioglie il voto di castità pronunciato da Lucia (capitolo XXXVI).
Renzo e Lucia si preparano al matrimonio (capitoli XXXVII e XXXVIII).
Coda
Commiato manzoniano ai suoi lettori: captatio benevolentiae10 relativamente alla «storia» narrata (capitolo XXXVIII).
Vicende di Renzo e Lucia sposi: i figli numerosi; i giudizi sulla bellezza di Lucia (capitolo XXXVIII).
OPERE DEL MANZONI - INNI SACRI
OPERE DEL MANZONI
INNI SACRI
Prima opera dopo la conversione: gli inni sono un componimento religioso simile all'ode = ne voleva scrivere 12, come gli apostoli e come le più importanti ricorrenze Cattoliche, dedicato ognuno ad un Dogma (verità rivelate): ne riuscì a scrivere solo 5: "la Resurrezione"; "il nome di Maria"; "il Natale"; "la Crocifissione"; "la Pentecoste" (unico veramente riuscito: 50 giorni dopo la morte di Gesù scende sugli apostoli lo Spirito Santo)
OPERE TEATRALI
Manzoni coltivò molto la passione per la tragedia tanto che ne scrisse due, tra il 1816 e il 1822, di larghissimo successo:
Il Conte di Carmagnola
Adelchi
Le tragedie sono opere scritte in versi destinate alla recitazione - Sono state riscoperte e rilanciate da Vittorio Alfieri - Presso i Greci era la forma più alta di Arte - Trattano di temi importantissimi con personaggi altrettanto importanti e di alta levatura sociale (non gente umile che poteva essere protagonista solo di commedie a lieto fine), che spesso presentavano un finale tragico - La tragedia tratta di realtà non quotidiane; mentre la commedia è legata a realtà umili e comuni. Entrambe le tragedie del Manzoni sono tragedie storiche in cui l'importanza della storia è fondamentale (Romanticismo =/= per gli Illuministi come Cartesio, studiare storia era come perdere tempo facendo turismo).
DRAMMA DEL POTERE = come nell'Alfieri, nel Manzoni si ritrova un tema comune: i protagonisti iniziano le loro avventure in una condizione di detenzione del potere che perde, ritrovandosi in un mare di guai che conducono al carcere, alla prigionia ed infine alla morte. In questo contesto si inserisce anche il concetto di tragedia storica: ciò che il Manzoni narra sono drammi del potere realmente accaduti e documentati.
Il conte di Carmagnola
Il conte di Carmagnola era un capitano di ventura della prima metà del 1400 che dopo aver prestato servizio a lungo per il Ducato di Milano si trasferì a Venezia per comandare le truppe venete. Il destino volle che fu costretto a comandare anche una battaglia contro le truppe mercenarie di Milano: le sconfisse ma non le inseguì per fare prigionieri (era solito tra due eserciti di soldati mercenari non fare prigionieri e addirittura non inseguire gli sconfitti). Il Senato di Venezia avvisato del comportamento del Conte e anche influenzato da antagonisti dello stesso, lo condannò per alto tradimento alla pena di morte = Dramma del peccato, del potere e dell'ingiustizia. Dalla lettura dell'opera si capisce come il Manzoni simpatizzi essenzialmente per il Conte che rappresenta il Potere Militare, mentre disdegni il Senato che rappresenta il Potere Politico = risalta la simpatia del Manzoni per le virtù militari = Questo fatto è sostenuto dagli avvenimenti storici dei primi anni del 1800: nel 1814-15 si sviluppò il dramma di Napoleone che dopo essere stato sconfitto a Waterloo e dopo aver visto la disgregazione del suo Impero fu costretto all'esilio sull'isola di Sant'Elena; questi avvenimenti sconvolsero soprattutto il Manzoni a causa dell'abuso del potere politico attuato da Austria e Russia nella spartizione dell'Europa e soprattutto dell'Italia.
Adelchi
Adelchi è il figlio dell'ultimo Re Longobardo, Desiderio: i Longobardi furono uno dei popoli barbari che invasero il Centro-Nord Italia dopo la caduta dell'Impero Romano tra il 400 e il 500 d.C. e furono sconfitto da CarloMagno chiamato dal Papa in suo soccorso.
1° atto CarloMagno aveva sposato Ermengarda, figlia di Desiderio ma la ripudia quando dopo essere stato chiamato dal Papa decide di scendere in Italia per combattere i Longobardi. Ermengarda cade in una crisi profonda a causa del suo completo amore per Carlo: dopo il ritorno a casa si ritirerà in un convento per finire i suoi giorni lontano dal mondo. Desiderio decide di muovere guerra contro CarloMagno.
Nel primo atto si delinea lo schema dei personaggi:
Adelchi: figlio di Desiderio;
Desiderio: Re dei Longobardi; Anfrido: fedele scudiero nonché miglior amico di Adelchi; Svarto: soldato ambizioso che con altri suoi compari decide di allearsi con Carlo dubitando delle possibilità di vittoria dell'esercito longobardo.
2° atto
Mentre Pietro (commissario papale) cerca di convincere Carlo a non demordere nonostante l'invalicabilità delle Chiuse, il dicono di Ravenna, Martino, confida all'Imperatore un passaggio segreto per aggirare le Chiuse e attaccare il campo longobardo da un lato indifeso.
3° atto
Nel campo longobardo Adelchi confida ad Anfrido il suo desiderio di Gloria (ideale romantico che si ottiene con grandi imprese) che sente irrealizzabile. I Franchi attaccano e nello scontro Anfrido muore eroicamente. L'esercito longobardo si divide in due: una parte, comandata da Svarto di pone agli ordini di Carlo; l'altra si divide ulteriormente in due e segue Adelchi a Verona, Desiderio a Pavia. L'atto si chiude con un CORO: Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti (T105a - pag. 899); con il coro l'autore dell'opera si riserva una parte per fare commenti = entrano in palcoscenico attori non protagonisti che presentano le riflessioni dell'autore sottoforma di canto.
T 105 A Parole piane = accento sulla penultima sillaba. tronche = accento sull'ultima sillaba. Si parla degli italiani (tema patriottico = tragedia della patria) che combattendosi tra loro rischiano di esporre il fianco agli invasori stranieri. I Longobardi del 700 fanno venire in mente gli austriaci del 1800. I Franchi sono invece i francesi di Napoleone, tiranno illusore che ha dato speranze al popolo italiano di liberarlo dalla dominazione straniera pur essendo lui stesso uno straniero = sin dal Trattato di Campoformio si era capito che i francesi volevano dominare l'Italia. Ma gli italiani di allora non si accorgono di queste finezze e accorrono ad assistere gioiosamente alla sconfitta dei Longobardi dai quali saranno in seguito ancora dominati con l'appoggio dei francesi.
Versi 1-6
Da 2 secoli non si combattono più guerre ed il popolo latino è abituato alla servitù: nel mondo antico, comanda che combatteva in guerra, mentre chi veniva sottomesso era costretto alla servitù = il rumore di battagli è una grande novità.
Versi 7-12 Orgoglio di essere discendenti dei romani che conquistarono il mondo.
Versi 13-18 Timore = del castigo longobardo Il popolo latino vede per la prima volta i suoi dominatori in fuga, sconfitti.
Versi 19-24 Longobardi simili a bestie, "fere", impaurite che cercano affannosamente un nascondiglio, una tana; dove le donne longobarde li guardano senza il solito sguardo superbo e minaccioso e con la faccia pallida, pensosi.
Versi 25-30 La guerra è descritta dal Manzoni cristiano come una cosa bestiale = una caccia: infatti i nobili si allenavano alla guerra in tempo di pace andando a caccia
Versi 31-60 Interviene il Manzoni che si rivolge al pubblico presente a teatro; chiede, infine, in modo altamente ironico se il premio da attribuire ai Franchi per quello che dovettero affrontare è liberare dalla schiavitù un popolo diviso e straniero, di cambiargli il destino.
Ruine = rovine dell'impero romano.
Imbelli: non adatti alla guerra = in (non) bellum (guerra).
Versi 61-66 Franchi e Longobardi si mescolano e governano insieme opprimendo (stare sul collo) il popolo italiano. Servi = greggi = animali: i servi venivano trattati come bestie, come merce da spartirsi. In fin dei conti al popolo latino dominato dai Longobardi successe ciò che è accaduto al popolo padano nel 1800: due popoli stranieri (Francia ed Austria) combattono per il dominio su un altro popolo (Italia). PROBLEMATICHE POLITICHE, STORICHE E RELIGIOSE: la libertà sembra che sia degna solo di coloro che combattono e che vanno in guerra = l'insegnamento di Dio è l'esatto opposto.
4° atto Muore Ermengarda dopo aver appreso la notizia che Carlo ha contratto nuove nozze. Alla scena segue il Coro Sparsa le trecce morbide (T105b - pag. 901).
T 105 B Il coro che viene presentato nell'atto 4° si riferisce alla morte di Ermengarda: TRAGEDIA DEL RIPUDIO. Lei e suo fratello Adelchi sono i due personaggi su cui le tragedia si realizzano: Ermengarda dopo essere stata ripudiata si rinchiude in un convento a Brescia dove morirà per il dolore dato dall'amore per CarloMagno SCHEMA METRICO: strofe di 6 versi settenari, sdruccioli i versi dispari, piani e rimati il 2° ed il 4°, mentre è tronco l'ultimo (= verso un po' artificioso ma adatto al contesto di morte e tragedia del Coro). Con le morbide trecce adagiate sul petto che sussulta affannosamente, con le mani (palme) abbandonate (lenta) e con il viso pallido e sofferente di morte imminente, giace Ermengarda, donna di grande pietà (pia), mentre il suo sguardo, tipico dei moribondi, erra alla ricerca del Paradiso. Intanto il pianto intorno a lei cessa e iniziano le preghiere delle sorelle: una mano gelida e leggera (quella della morte) cala sul suo viso e le abbassa le palpebre oscurando la pupilla azzurra. Ora il Manzoni si rivolge all'anima di Ermengarda = Sgombra, o nobile, i pensieri dolorosi che portavi nella mente angosciata; leva a Dio un puro pensiero di offerta (offriti a Lui): il Paradiso è la meta della tua lunga sofferenza terrestre. Il destino terreno della povera Ermengarda era immutabile: Dio non le avrebbe mai concesso di dimenticare Carlo come lei voleva perché per destino per salire in Paradiso tra i Santi doveva soffrire in terra = la sofferenza la rende santa al cospetto dei Santi del Paradiso. [TEMA DELLA DIMENTICANZA: con questo termine si vuole indicare il fatto che nei momenti infelici della vita salgono alla mente i ricordi felici = il Manzoni richiama spesso questo tema, quanto nei Promessi Sposi, tanto nel "5 Maggio".] Nel buio delle notti trascorse insonni tra i chiostri, da sola, ai piedi degli altari a chiedere a Dio di dimenticare Carlo, venivano inconsciamente alla memoria tutti i momenti più lieti passati alla corte francese con l'amato quando, ignara del suo traditore avvenire, ubriaca di felicità, respirò la salutare aria della terra Franca apparendo in mezzo alle spose di Francia. Quando da una collina vedeva, con i capelli ornati da gemme, le immagini (Carlo che cavalcava chino a crine sciolto, seguito dalla furia degli altri cavalli e dai cani ansanti che costringevano il cinghiale ad uscire dal cespuglio, scoprendosi) della caccia culminante con l'uccisione del cinghiale: Ermengarda alla vista del sangue impallidiva e ritirava lo sguardo, per un terrore che la rendeva più bella. Infine Carlo, toltosi la maglia di ferro si andava a lavare alla Mosa (fiume di Aquisgrana) per levarsi di dosso il nobile sudore della fatica ( il sudore degli italiani e un "servo sudore").
Dal verso 61 all'84 Manzoni fa una similitudine; parla della Rugiada (che di notte da' refrigerio al fiore, ma è anche la parola amica di una suora che le dice di pregare sempre e solo Dio) e del Sole (ricordo di Carlo che torna, e anche oggetto della natura che quando sorge uccide il fiore con la forza e l'impetuosità dei suoi raggi).
Il Manzoni ora torna a rivolgersi ad Ermengarda. Scaccia dalla tua mente angosciata le passioni, eleva a Dio un canto eterno: nel suolo (= Lombardia) che dovrà ricoprire le tue spoglie sono sepolte altre spose che come te sono morte di dolore causato dall'amore, sono donne che hanno perso il fidanzato o i figli morti in battaglia, trafitti dalle spade longobarde. Tu, che discendi dalla famiglia regnante dei Longobardi, colpevoli oppressori, la cui legge era quella del più forte e la virtù stava nel fatto di essere maggiore di numero e la gloria nel non aver pietà dei deboli, fosti collocata dalla PROVVIDA SVENTURA tra gli oppressi: muori dunque tra il pianto delle suore, dove nessuno oserà insultare le tue spoglie. Muori e sul tuo volto torni la pace com'era quando, ignara di un traditore avvenire (v. 31), esprimeva solo lievi pensieri. Così come il sole tramontante dietro i monti, da dietro le nuvole trova uno spiraglio per arrossare il vibrante occidente ed augurare al religioso contadino un giorno sereno.
PROVVIDA SVENTURA = sventura mandata dalla provvidenza: noi viviamo in un mondo di malvagi destinati all'inferno: Dio manda a qualcuno di questi la sventura per purificarli e renderli diversi dai malvagi: in questo modo chi prima era oppressore diviene oppresso (per Manzoni o sei l'uno o sei l'altro: non puoi stare nel mezzo) = Ermengarda da oppressore, grazie alla Provvida Sventura diventa oppressa e le si aprono così le porte del Paradiso. - La vicinanza dei due termini costituisce un ossimoro: figura retorica che consiste nell'accostamento di due termini di significato opposto: se soffrirai sulla terra avrai la possibilità di conquistare il Paradiso. Segue l'accordo tra Svarto, ora nobile del Regno dei Franchi, e il Duce Guntigi, che aveva ricevuto l'incarico da Desiderio di difendere le mura di Pavia: non mantiene l'impegno e le forze di Carlo potranno entrare in Pavia.
5° atto Inizia con un monologo di Adelchi che ha appena ricevuto notizia dell'occupazione di Pavia e richiesta del suo esercito stremato di arrendersi ai Franchi che assediavano Verona: decide di arrendersi ma di fuggire verso Bisanzio. Le truppe franche sono più veloci di lui e lo arrestano ferendolo a morte: fa però a tempo a chiedere di incontrare il padre e Carlo al quale chiederà una dignitosa prigionia per il padre: l'Imperatore acconsentirà e Adelchi morirà.
T 105 C Conclusione dell'Adelchi: disfatta dei Longobardi; prigionia di Desiderio; morte di Adelchi. [Collegamento con la morte di Ermengarda: perché Dio vuole salvare qualcuno? Perché c'è qualcuno che nell'intimo presenta animo e sensibilità cristiana, odiando la violenza pur dovendoci convivere = Ermengarda infatti viene salvata da Dio pur senza aver ottenuto successo terreno, che spetta solo agli oppressori che non raggiungeranno il Paradiso] Dai primi versi si capisce come il Manzoni simpatizzi per Adelchi e gli attribuisca un animo cristiano, mentre al padre l'autore riserva sempre un animo guerriero attaccato ai beni terreni = anche la morte di Adelchi rappresenta un intervento della Provvida Sventura. Infatti si nota come il giovane ne capisce il significato rendendosi conto dell'esistenza della forza della volontà divina che pur portando sventura non è crudele. Versi 23-4-5 = Desiderio ricorda le qualità del figlio, ma solo quelle militari e terrene denotando di non essere pronto all'incontro con Dio non avendo ancora afferrato il significato profondo dei valori cristiani. SOLILOQUIO DI ADELCHI (veri 26 ... 52) Il mistero della vita è comprensibile solo in punto di morte perché durante la vita non si ha il tempo per farlo = per una persona che sta per morire non è importante la perdita del regno ma quello che sarà di lui dopo la morte. Gli anni di prigionia che il padre sta per affrontare saranno molto più belli di quelli passati a regnare perché durante la prigionia non si ha la possibilità di commettere alcun torto o ingiustizia: nessuno così in cielo potrà annotare ulteriori tue angherie a causa delle imprecazioni che coloro che tu opprimi ti mandano per essere un tiranno oppressore (diverrai un oppresso salvato da Dio). Adelchi manifesta il disprezzo del potere e gli uomini che lo detengono: "godi perché non sei più Re, perché ti è chiusa ogni via all'azione (non potrai più fare niente che faccia soffrire qualche altro essere umano): su questa terra non c'è spazio per delle azioni gentili, nobili ed innocenti: o si fanno torti o si patiscono (o oppressi o oppressori) = Visione pessimistica del Manzoni. Il mondo è posseduto dalla violenza (legge del più forte) che si fa chiamare diritto del più forte, di colui che fa le leggi. I primi longobardi seminarono la barbarie che fu coltivata dagli altri successori e la terra oramai non da' altro che sangue ed ingiustizie. Godi dunque ancora di più per non essere Re: governare su gente ingiusta, i Longobardi, non è bello. Tu l'hai provata questa amarezza, e anche se così non fosse (cioè, se anche tu avessi trovato piacere nel governare un popolo crudele), ricordati che comunque tutto finirà sempre con la morte: tutto si concluderà con il diventare nulla (diverso dal nulla eterno del Foscolo). Il giorno della vittoria (morte di Adelchi) è felice per Carlo ma resta comunque il fatto che anche lui prima o poi morirà.
A questo punto Carlo si lascia impietosire dalle parole di Adelchi e non vuole più essere chiamato nemico. Adelchi notando questa leggera conversione capisce che può ottenere qualcosa da Carlo: pur non chiedendogli la liberazione del padre, gli chiede che Desiderio possa ottenere una prigionia senza sofferenze in cui i duchi longobardi traditori non possano apparire al suo cospetto.
Negli ultimi versi si nota la totale conversione di Adelchi che felice si abbandona alla morte. Analizzando il personaggio di CarloMagno si nota come, anche se nella tradizione cristiana egli fosse considerato l'Imperatore Cristiano, il Manzoni sottolinea il fatto che Carlo nell'Adelchi abbia preferito la Ragion di Stato al Vangelo: Manzoni vede Carlo come uomo di potere e non di Chiesa.
POETICA DEL MANZONI
La storia è di fondamentale importanza sia nel Manzoni che nel Romanticismo che vedono nella storia Medievale la culla della civiltà. Per Manzoni, dunque, la storia ha grandissima importanza (tragedie, romanzi e poesie storici: con un legame fondamentale con gli avvenimenti storici = Promessi Sposi e 5 Maggio). La storia è importante perché si contrappone al mito, alla leggenda del Neoclassicismo: i miti sono favole inventate; la storia è realtà, un insieme di vicende realmente accadute. Manzoni ama la verità e pensa che il primo compito di un uomo di pensiero sia giungere a scoprire la verità, non di certo attraverso i miti (favole che a volte contengono falsità e bugie) ma con vicende storiche. Infatti gli Dei pagani erano falsi: idee pagane false.
VERITA' = STORIA
In Manzoni c'è la convinzione che la storia si sviluppi non con il caso ma con l'intervento di Dio che prende a cuore la storia dell'uomo per far raggiungere degli scopi-obiettivi agli uomini e li aiuta come se fosse il regista di un film = l'uomo è condotto verso la lontananza dall'essere animale e verso l'evoluzione. [Voltaire pensava invece che Dio non intervenisse in soccorso degli uomini] Quindi nella storia si può scoprire cosa Dio vuole dall'uomo: il suo progetto per l'umanità anche se nella storia ci sono cose incredibili che portano a pensare come può essere che nel progetto di Dio ci sia anche questo. Manzoni non è però uno storico ma un poeta che scrive di fatti realmente accaduti. Ma allora, che rapporto c'è tra poesia e storia? Tra poeta e storico? Per Manzoni esiste un differenza: lo storico si occupa dei fatti, della sequenza degli avvenimenti e di come questi si sono svolti stabilendone cause e conseguenze; il poeta non si distacca dalla storia ma cerca di capire come questa è stata influenzata ed ha influenzato l'animo umano, degli uomini che sono stati i protagonisti della storia: quali sono i sentimenti e le passioni che li hanno portati ad agire in quel modo. Quindi il Manzoni indaga nell'animo di chi ha fatto la storia per ottenere un quadro di come agiscono gli uomini e di cosa (passioni e sentimenti) li spinge a comportarsi in un certo modo. Ma un poeta come fa a capire ciò? Se usa alcuni documenti, quali sono? Grazie all'immaginazione e alla simpatia. Simpatia sta per patire insieme: provare le stesse passioni di un'altra persona = il poeta ha questa capacità
T 104 A TESTO DI POETICA = testo che spiega cosa l'autore intende per poesia e quale è il suo ruolo nello scrivere, che senso ha scrivere, quale è l'utilità di quello che fa.
UNITA' DEL TEMPO E DEI LUOGHI
Nel 1500 gli studiosi scoprono un libro di Aristotele che si credeva perso, in cui si parlava della tragedia: precisamente il filosofo greco dettava gli scopi ma soprattutto tre regole fondamentali dello scrivere tragedie. 3 REGOLE o Unità: di azione (raccontare un solo fatto), di tempo (un fatto accaduto in un giorno), di luogo (un fatto accaduto in un solo luogo); se le tre unità non vengono rispettate la tragedia perde di intensità. Queste regole in pieno clima Neoclassico diventano quasi sacre. Ma il Conte di Carmagnola non rispetta l'unità di tempo e di luogo, allontanandosi quindi dalle regole sacre. Monsieur Chovet critica in un suo articolo questa "mancanza". Manzoni gli risponde che non ha rispettato le due unità perché vuole rimanere fedele alla storia: le tragedie per essere capite, devono essere spiegate dall'inizio. La tragedia di un popolo non si svolge in un solo giorno, in un solo luogo.
Il Manzoni spiega quindi l'importanza che la storia ha per lui, svincolandosi così definitivamente dalla poetica neoclassica e dal canone dell'imitazione: aderisce completamente alle idee neoclassiche.
I° Paragrafo = la poesia deve occuparsi degli eventi storici. II ° Paragrafo = il Manzoni parla della differenza tra poeta e storico sottolineando che il primo analizza soprattutto ciò che è avvenuto nell'animo degli uomini di storia: il poeta è lo Sherlock Holmes dell'animo umano = gli storici non hanno mai provato a capire cosa pensava e provava l'Adelchi morente. Il poeta è invece capace di ciò se ha sufficiente fantasia: "Tutto ciò che la volontà umana ha di forte e misterioso, tutto ciò che la sventura ha di religioso e di profondo, il poeta può indovinarlo, o, per dir meglio, può vederlo, comprenderlo ed esprimerlo." (rigo 23)
Manzoni riafferma la convinzione che in ogni sventura c'è qualcosa di religioso e di profondo: nel senso che la gente sventurata è più religiosa e meno superficiale = applicato ad un Re (Adelchi) ciò significa che egli inizia a pensare non nel senso di "Come gli altri lo hanno ridotto" ma di come "Lui ha ridotto gli altri" e addirittura lo spinge ad odiare la sua precedente posizione di monarca = lo storico non recepisce queste sensazioni.
T 104 B (dal rigo 34) Manzoni dà la prima regola di condotta che lo scrittore deve rispettare: uno scrittore non deve scatenare nel lettore le passioni, soprattutto quelle peccaminose, distruttive: è necessario insegnare al lettore a non immedesimarsi nel protagonista e di evitare di farsi prendere dalle passioni dello stesso perché se lo facesse avrebbe la tentazione di provare la situazione narrata: invece l'arte ha lo scopo di educare il lettore a rispettare le regole dell'etica (dominare le passioni) e della morale = l'arte deve insegnare come si possono evitare e dominare le passioni. [si nota dalla lettura come il Manzoni abbia ricevuto un insegnamento di tipo cristiano nonostante le basi illuministiche] Per questo l'artista non deve dunque indugiare nelle passioni peccaminose, quali che esse siano. E' significativo in merito a ciò come i Promessi Sposi inizino da un momento temporale posteriore al "Fatto" = questo è stato fatto per evitare la descrizione dei pensieri osceni e peccaminosi e delle avances di Don Rodrigo, che poi sarebbero stati raccontati da Lucia con un dono decente, ma soprattutto con molto riguardo; oppure in merito alla tresca della Monaca di Monza troviamo solo la frase: "e la sventurata rispose". RIGO 51 = non si deve mai rinunciare alla ragione a favore della passione per quanto questa possa essere attraente, poiché le passioni discendono dalla nostra debolezza e dai nostri pregiudizi = Manzoni pur essendo Romantico per molti aspetti, non accetta il valore supremo del Romanticismo: "sentimento e passione - immaginazione e fantasia".
IL CINQUE MAGGIO
Il Manzoni dedica a Napoleone questa poesia dopo avere appreso della sua morte: Napoleone era stato il dominatore, l'eroe del tempo che nonostante la grande sconfitta di Waterloo aveva infiammato tutti gli europei. Prima di allora il Manzoni non aveva scritto niente su di lui Manzoni apprende la notizia della morte dalla Gazzetta di Milano di un giorno di Luglio: apprende non solo il fatto del decesso ma anche che Napoleone prima di morire aveva chiesto di ricevere i Sacramenti, volendo morire così da cristiano = questo aspetto della morte di napoleone infiamma il Genio di Manzoni che scrive un'ode Religiosa (che passerà alla storia come un'ode civile) in quanto parla di una conversione come molte altre nel Manzoni: la sua e di altri suoi personaggi (Innominato). SCHEMA METRICO: è come quello di Ermengarda = questo significa che la morte di Napoleone deve portare alla memoria quella di Ermengarda. I due decessi hanno in comune la sventura e la riacquistata fede, ma soprattutto la Provvida Sventura. Leggendo l'ode si capisce come Napoleone voleva essere come Dio, come era megalomane, in eterna ricerca del successo terreno: l'intervento della Provvida Sventura lo confina nella solitudine e nella disgrazia, portandolo a capire la vita e più vicino a Dio.
I° - II° Strofa Ei fu Ei = egli, il Fu = passato remoto, azione finita Manzoni ci vuole far capire due cose: 1) come l'epopea di Napoleone non esista più: Napoleone appartiene al passato; 2) le due parole molti brevi sia da scrivere che da pronunciare sono in corrispondenza con la vita di Napoleone a confronto con l'eternità di Dio.
Immobile L'aggettivo indica lo stato di shock che colpì l'umanità intera alla notizia della morte di Napoleone = le persone rimasero immobili come il cadavere di Napoleone. [Il cadavere viene definito spoglia secondo il concetto cristiano: è la parte della nostra persona che imprigiona l'anima e che resta abbandonata quando l'anima se ne va]
Nel seguito dell'ode verrà esaltata la vita mobile, frenetica che Napoleone ha condotto, mai fermo nello stesso posto per troppo tempo, sempre in movimento per dominare il Mondo = in contrasto con l'immobilità del cadavere.
Immemore La spoglia è di opinione comune che possa essere fredda o immobile ma immemore è difficile = il Manzoni con questo termine ha voluto sottolineare che quando interviene la Provvida Sventura, nasce un dramma dei ricordi (verrà esplicitato meglio questo fatto nei versi successivi dove Manzoni narrerà dei pensieri di Napoleone in esilio).
Uomo Fatale Il termine secondo un significato passivo (che non ha senso in un'ode religiosa) indica il fatto che Napoleone sia stato mandato dal fato; secondo quello attivo (e giusto) il Manzoni ha voluto dire che Napoleone ha tenuto nelle sue mani il destino dell'Europa.
III° - IV° STROFA Folgorante "Che scaglia le folgori": se guardiamo alla mitologia greca il Dio che scagliava le folgori ai sudditi che non ubbidivano agli ordini era Giove il sommo degli Dei = Napoleone viene visto come una somma divinità.
Uno scrittore romantico come Manzoni pensa che la sua forza stia nell'ispirazione che lo spinge a scrivere, nel suo GENIO (che deriva da generare, creare come se l'opera fosse un figlio). Questo Genio non ha mai spinto Manzoni a scrivere qualcosa su Napoleone sino al momento della sua morte: il Manzoni parla dunque in queste strofe della sua ispirazione.
"Il mio genio non mi ha spinto a scrivere di Napoleone né quando vinceva, né quando perdeva come invece hanno fatto molti altri; ma ora la morte di Napoleone lo ha ispirato" e dunque il Manzoni scrive l'ode. L'autore scioglie dunque alla tomba un cantico (poesia religiosa) ispirato dal suo Genio.
V° STROFA Il Manzoni nomina le imprese di Napoleone attraverso un ritmo binario per comunicare l'idea di velocità: che viene espressa subito dopo con le parole Baleno (rapidità con cui Napoleone prendeva le decisioni) e Fulmine (rapidità con cui Napoleone eseguiva le decisioni). Le imprese di Napoleone sono tanto grandi e vaste da essere in netto contrasto con la piccola e sperduta isola di S. Elena.
VI° STROFA "Fu vera gloria?" Questa è la questione fondamentale dell'ode: infatti rispecchia il mito fondamentale del Romanticismo: la GLORIA. Manzoni si pone questa domanda: i contemporanei pensavano forse di sì perché non si aspettavano che dopo grandi come Carlo Magno ce ne sarebbero potuti essere altri. Infatti altri personaggi famosi dell'epoca se lo chiesero: Foscolo (è passato dall'ammirazione all'odio per il tradimento) e Beethoven (scrisse addirittura un'opera, "Eroica", dedicandola a Napoleone ma togliendo successivamente questa dedica per aver notato in lui un carattere di tiranno). Manzoni non risponde direttamente ma lo fa capire dai versi che seguono: noi contemporanei chiniamo la fronte davanti a Dio che volle stampare in Napoleone una delle più grandi tracce della sua capacità creativa = Napoleone non dimostra la gloria dell'uomo ma quella di Dio creatore. Più avanti il Manzoni dirà che quella di Napoleone non può essere vera gloria perché è stata conquistata sulla pelle di migliaia di persone uccise.
VII° - VIII° STROFA Manzoni passa dunque da buon poeta all'analisi psicologica di Napoleone e della sua figura. Verso 43 = tutto egli provò: la più grande gloria mai pensata dopo il pericolo, la fuga e la vittoria, la reggia ed il triste esilio, due sconfitte (Lipsia e Waterloo) e due trionfi (incoronazione ad Imperatore e 100 Giorni). Per indicare la sconfitta è significativo che il Manzoni abbia usato la parola polvere: (lo stesso termine lo aveva usato per descrivere la terra (v.11)) la parola fa venire in mente un soldato ferito a morte sul campo di battaglia che cade a terra privo di vita alzando la polvere depositatasi per la confusione [metafora] = Napoleone viene accostato ai soldati che sono morti per la ricerca della gloria di un oppressore che morirà da oppresso. Invece per indicare il trionfo il Manzoni ha usato la parola altare, per creare una corrispondenza con il sacrilegio di Napoleone che con le vittorie sul campo di guerra voleva diventare come Dio.
Verso 37 = Napoleone ha provato la gloria tempestosa e colma di trepidazione di chi ha in mente un grande disegno, un mega progetto: diventare, da umile e sconosciuto soldato di Corsica, il padrone del mondo. Provò per questo l'impazienza di un cuore che indocile deve ubbidire, consapevole e pensante al futuro che verrà: per esempio quando il Direttorio lo costrinse alla campagna d'Italia. Napoleone poi realizzò anche il suo desiderio: divenne imperatore, un sogno che per molti se non tutti è folle. FOLLIA = la parola in questo contesto ha due significati: 1) impossibile; 2) in senso religioso/biblico la follia corrisponde al peccato di orgoglio (quello della creatura che vuole essere superiore al suo stesso creatore).
IX° STROFA Egli pronunciò il suo nome: 2 secoli ('700 e '800) in lotta l'uno contro l'altro si rivolsero a lui sottomessi, aspettando il destino della loro controversia: lui doveva decidere il vincitore. Egli impose dunque il silenzio e si sedette, arbitro, in mezzo a loro. '700 = Antico Regime
'800 = rappresenta il nuovo, ciò che è figlio della Rivoluzione, il secolo borghese.
Napoleone fu il mediatore tra le esigenze conservatrici ed esigenze rivoluzionarie, tra quelle della borghesia e quelle dell'aristocrazia.
X° STROFA Eppure, benché egli fosse così grande, scomparve dalla scena politica e terminò nell'ozio la sua vita, confinato in una piccola isola, fatto oggetto di immensa invidia, pietà profonda, odio che neppure l'esilio poteva estinguere e d'indomato amore (dei generali e dei soldati che lo seguirono fino in esilio)
FINO ALLA FINE Manzoni immagina la sofferenza di Napoleone che trascorre come Ermengarda il DRAMMA DEI RICORDI. L'autore introduce quindi una similitudine come quella di Ermengarda, in cui i due termini centrali sono la tempesta del mare ed il naufragio
COME l'onda si abbatte sulla testa del naufrago; COSI' il cumulo dei ricordi schiaccia l'animo di Napoleone. Oh quante volte si mise a narrare le sue venture, le sue memorie ai posteri (verso 31) attraverso un libro (forse questa è l'unica funzione utile dei ricordi) ma Napoleone non ci riuscì perché i ricordi che sembravano interminabili (= eterne: 1) atte a sfidare la fama del tempo, ma nulla sulla terra è eterno = assurdo per il Manzoni; 2) contestazione alla poesia eternatrice del Foscolo Neoclassico) e che stancarono eccessivamente la mano di un uomo d'armi e non abituato allo scrivere.
STETTE = quando Napoleone è assalito dai ricordi rimane come un cadavere: immobile ed inerte senza poter fare più nulla
POLISINDETO = accostamento di tante frasi o espressioni unite dalla congiunzione "E". I ricordi di Napoleone sono soprattutto quelli di tipo militare e non quelli di tipo politico: perché la vita militare è caratterizzata da mobilità ed azione in contrasto con l'inerzia dell'esilio. Inoltre Manzoni ha sempre avuto stima per le virtù militari e non per quelle politiche.
AIUTO = ora che Napoleone è sconfitto (oppresso) il Cielo0 gli da' un aiuto: la Fede che pietosa lo trasportò in un'aria più serena. La fede lo condusse, per i fioriti sentieri della speranza, ai campi eterni (= Paradiso, in contrapposizione con i campi di Battaglia) (in contrapposizione con eterne pagine verso 71). Inoltre lo avviò al premio (Paradiso) al cui confronto la gloria passata, terrena, non è nulla, comunque finirà.
GLORIA = (verso 31) il Manzoni risponde: la vera gloria è quella che non passa mai, quella che si conquista con la santità e non con le imprese militari e terrene.
BELLA IMMORTAL = Fede, abituata a trionfare, scrivi anche questo perché più superba altezza mai si chinò dinanzi al Signore, al Mistero della Crocifissione. Tu, Fede, dal cadavere di un uomo stanco disperdi ogni malvagia parola; il Dio che abbatte ed innalza, che fa soffrire, ma sa anche consolare, si posò al fianco di Napoleone, seduto sul suo letto.
I PROMESSI SPOSI
Nella primavera del 1821 Manzoni si ritira nella sua casa di Brusuglio dove, tra la quiete del posto, matura l'idea del romanzo grazie ad alcune lettere sulle vicende storiche di Milano del 1630. Manzoni inizia a scrivere i primi due capitoli e l'introduzione il 24 Aprile 1821, ma la prima stesura completa si ha nel Settembre 1823 = la copia di quest'anno non fu mai pubblicata e rimase come manoscritto con il nome di "Fermo e Lucia". La critica considera il Fermo e Lucia non come un abbozzo del Capolavoro ma come un romanzo diverso ed autonomo. La sua struttura è l'insieme di blocchi narrativi autosufficienti. Il lavoro è diviso in toni: primo tono che narra le peripezie dei due promessi che scappano per sottrarsi alle prepotenze feudali di Don Rodrigo; poi tutto il secondo e parte del terzo ("Romanzo Campagnolo di Lucia e "Romanzo cittadino di Fermo")
FERMO = è colui che non sta mai fermo, ma il suo muoversi non produce alcun effetto; la storia finisce bene non grazie a lui ma per la conversione dell'Innominato.
Il Fermo e Lucia si differenzia tantissimo dai Promessi Sposi per: 1) l'impronta saggistica = dovuta al dichiarato intento pedagogico della poetica manzoniana. Gli excursus storici e il giudizio morale hanno un peso maggiore della linearità del racconto (Romanzo Saggio), storia vera e propria in favore della cronaca di costume e del quadro sociale;
2) Antitesi Manichea (contrappone i personaggi a coppie: uno buono, l'altro malvagio) - Manicheismo = religione orientale che distingue il mondo in Bene ed in Male. Nel Fermo e Lucia i personaggi sono o solo buoni o solo cattivi = figure manica di Monza: nasce un contrasto violento tra vizio e virtù che nei Promessi Sposi è più sfumato.
3) ha il carattere di un Romanzo Nero (rappresenta violentemente il contrasto tra vizio e virtù: ci sono personaggi satanici, atmosfere tenebrose, delitti mostruosi) = tra la fine del 700 e i primi dell'800 andava di moda raccontare storie angoscianti di cui il Manzoni era un avido lettore. Nel Romanzo nero c'è uno scontro pazzesco tra vizio e virtù e c'è la presenza di personaggi bestiali e diabolici che si accaniscono contro vittime innocenti. Questo stile era stato iniziato dal marchese de Sad (da cui deriva sadismo) che scrisse la storia di Sodoma e Gomorra e che Pasolini tradusse in un film, Salò (in francese = sporcaccione)
4) l'Innominato nel Fermo e Lucia viene presentato molto più approfonditamente mentre nei Promessi Sposi si parla del disgusto che durante la conversione provò per il suo passato peccaminoso. Nel Fermo e Lucia l'Innominato è il Conte del Sagrato 5) Fermo rispetto a Renzo si muove di più, però senza utilità.
IL CONTE DEL SAGRATO
L'innominato viene descritto come un personaggio satanico, che gode a far del male; non c'è giustizia; si muove per capriccio. Si rivolge a lui un debitore per essere protetto dal creditore, il quale non si era mai sottoposto alle angherie del Conte; il quale lo attende sul Sagrato della Chiesa col fucile puntatogli addosso e quando lo ha sotto mira lo uccide. 1) Il conte è un personaggio ispirato dal Manzoni da un vero uomo, un feudatario crudele di nome Bernardino Visconti poi convertitosi = si ispira alla storia. 2) Nei Promessi Sposi (pubblicati definitivamente nel 1827 e poi riscritto in lingua più colta nel 1840) scompare questo delitto, come anche altri avvenimenti troppo cruenti: il Manzoni ha eliminato questa parte della storia perché colui che la leggesse non crederebbe alla conversione di un uomo tanto crudele. Nei Promessi Sposi si tacerà sui suoi delitti, si dice che li ha commessi senza descriverli
3) La folla è vera protagonista dei Promessi Sposi = assalto ai forni delle Grucce e protesta del pane. Manzoni non ama la folla = infatti viene descritta con giudizi negativi = è una massa amorfa, senz'anima, mossa dall'istinto della conservazione; è un cosa. La folla non è capace di compiere scelte razionali; è capace solo di atti violenti, vogliosa di sangue, è meschina e non conosce valori nobili.
La folla scappa senza proteggere il creditore = non prova pietà. la folla è poi in grado di far perdere la ragione anche a un uomo che la possiede = è una forza bruta, nella folla si perde la responsabilità morale dell'individuo = uomo calmo allo stadio violento. Ma chi non ama la folla non può amare la Rivoluzione = Manzoni dà giudizio negativo alla Rivoluzione Francese ma non fu un sostenitore della Restaurazione = è un patriota = oppositore alla Restaurazione che appartiene però alle sette segrete moderate = dare potere al popolo è per il Manzoni sbagliato, è contrario, scrive anche un'ode (23 Marzo 1821 a sostegno dei moti carbonari poi falliti). Manzoni è contro i privilegi aristocratici = solo un aristocratico può essere favorevole alla Restaurazione. Promessi sposi è un'enunciazione di questi soprusi. Per Manzoni la folla è l'ambiente del demonio. Nel Fermo e Lucia la storia di Gertrude occupava ben 6 capitoli, nei Promessi Sposi solo 2; Manzoni sostenitore della moralità dell'arte ritiene sbagliato descrivere ampiamente e dettagliatamente i personaggi negativi: con i loro crimini si rischia di contagiare il lettore facendolo diventare anche egli un personaggio negativo; l'artista oltre che divertire deve educare.
Manzoni scrive nel 1827 quando l'Italia non esisteva, non esisteva neanche una lingua comune (Perché adesso?!!!) ma numerosi dialetti = Manzoni vuole che i Promessi Sposi sia un romanzo che aiuti l'unità d'Italia = un Romanzo che possa essere letto da tutti gli italiani; lui trova questa lingua nel fiorentino = lingua viva già parlata e no solo scritta = il fiorentino parlato dalla persone colte, non del popolino. Firenze è la capitale letterale e culturale dell'Italia = tutti hanno letto Manzoni, Petrarca, cioè il fiorentino.
Franco Fido = crea il SISTEMA DEI PERSONAGGI = saggio del critico ancora vivo. alla domanda se si poteva fare un riassunto dei Promessi Sposi lui aveva risposto affermativamente creando il sistema dei personaggi. Franco Fido divide il Romanzo in due parti = Manzoni ha voluto fare un primo e un secondo tempo. Dal primo al 19° corre la prima metà, del 20° al 38° corre la seconda. Leggendo ci si rende conto che nei primi 19 capitoli la storia ha date caratteristiche con storia e personaggi, nella seconda parte altre caratteristiche.
1) La prima metà ha come tema principale la giustizia = è stata commessa un'ingiustizia da Don Rodrigo e le sue vittime con l'aiuto di Fra Cristoforo cercano di porvi rimedio = ripristinare la giustizia, il matrimonio deve celebrarsi. Divide i personaggi in:
a) Vittime: Renzo = fantastica di uccidere
b) Oppressori: Don Rodrigo
c) Mediatori:
1) protettori della vittima = Fra Cristoforo
2) strumenti = Don Abbondio che non celebrando il matrimonio diventa uno strumento di Don Rodrigo. Il romanzo inizia da Don Rodrigo il quale rompe l'equilibrio senza il quale il matrimonio si sarebbe normalmente fatto = non si potea fare Romanzo. Don Rodrigo va da Don Abbondio il quale cerca di convincere Renzo ad aspettare ancora a sposarsi (non tutte le carte sono a posto); Renzo chiede aiuto a Fra Cristoforo che non riuscendo a convincere Don Rodrigo finisce con una minaccia = Verrà un giorno...... Tutti gli espedienti attuati dalle vittime e dai mediatori (protettori della vittima) per ripristinare la giustizia son falliti. Agnese manda Lucia in convento.
2) La seconda parte presenta il tema principale della Misericordia di Dio = prima c'era stato un sopruso; ora abbiamo una grazia; Dio tocca l'innominato e lo converte.
a) L'Innominato anche se ormai stanco di commettere soprusi per abitudine convince Egidio suo amico, amante della Monaca di Monza (strumento dell'Innominato) la quale la consegna all'Innominato; costui non la consegna però a Don Rodrigo ma al Cardinale Borromeo perché intanto si è convertito; il quale la riconsegnerà al legittimo sposo Renzo. Si è dovuti però scendere nella seconda parte dove c'è l'intervento di Dio, della Provvidenza che convertendo l'Innominato rende possibile la riconciliazione tra Renzo e Lucia; nella prima metà invece, dove tutto è fatto da uomini non si arriva a nessuna soluzione del problema, Fra Cristoforo che pensava di risolvere tutto fallisce nell'intento.
Nella prima parte le frecce hanno un andamento antiorario, in parte della seconda parte del romanzo, il movimento diventa orario solo dopo la conversione dell'Innominato; l'andamento antiorario indica che tutto avviene contro natura; l'uomo che sostituisce la sua volontà a quella di Dio è una cosa innaturale. Le frecce tratteggiate rappresentano rapporti potenziali che si sarebbero potuti verificare; di fatto questi personaggi non si sono mai trovati l'uno di fronte all'altro. Renzo ..... Don Rodrigo = Renzo sarebbe morto. Lucia ..... Don Rodrigo = l'avrebbe rapita = cose che Manzoni non vuole.
IL NARRATORE DEI PROMESSI SPOSI
Il narratore non è colui che scrive le vicende (scrittore) ma bensì colui che le racconta : può essere interno (se è uno dei personaggi coinvolti nel racconto, spesso il protagonista) oppure esterno (quando non è una persona che entra a far parte dei personaggi dell'intreccio). I Promessi Sposi hanno un narratore esterno che oltretutto è onnisciente, cioè che sa tutto dei personaggi (chi sono , il loro passato, le loro intenzioni e persino i loro pensieri più nascosti), che interviene commentando l'operato dei protagonisti delle vicende (= ad esempio il Manzoni descrive Don Rodrigo "Un uomo fuori di sé non sa quel che dice") e a volte interrompendo la narrazione dei fatti per effettuare quelle che nei Promessi Sposi si definiscono "digressioni storiche". Inoltre il Manzoni disponendo di un criterio oggettivo quale la fede può giudicare i suoi personaggi in quanto la Fede stessa gli da' delle certezze e dei valori certi.
- Illuminismo e Cristianesimo
Manzoni è diventato uno scrittore molto vicino al Romanticismo pur avendo ricevuto un'educazione illuminista ed anticonformista (che non fu rifiutata) ; è significativo quindi che i Promessi Sposi siano un Romanzo centrato sul tema del rischio che corre la Famiglia a causa della passione peccaminosa esterna (Don Rodrigo) = è quindi un Romanzo scritto in difesa del Santo vincolo del Matrimonio. Manzoni continua quindi a essere illuminista conservando il principio base per il quale la ragione è fondamentale e che condanna il vizio, la passione, il pregiudizio e la superstizione (es. : la peste è causa degli untori). Manzoni sembra dunque avvicinarsi alle idee di Voltaire : punto di raccordo è il terremoto di Lisbona a cui la gente attribuisce una causa dettata dalla superstizione. Nonostante questa affinità nella disgrazia della pesta manzoniana vediamo, oltre a similitudine, anche alcune importanti differenze : le cause naturali e fisiche se le chiedono entrambi, ma Manzoni non si ferma a questo perché crede in Dio : infatti si inoltra nelle indagini pensando a come Dio stesso possa avere a che fare con la peste, se Lui l'abbia permessa senza motivo, se Lui ne sia rimasto indifferente, se la peste stessa non sia parte dei suoi progetti. Voltaire non si spinse così in là perché non credeva in Dio. Manzoni si trasforma in Metafisico (colui che studia le cause sovrannaturali dei fenomeni) che Voltaire definiva Cosmoscemologia (Pangloss).
Le domande che si pone il Manzoni vanno dunque al di là della ragione, rientrano nel campo del sovrannaturale, non scientifico, delle cause naturali che sono soggettive : ognuno dà la risposta che vuole senza poterla dimostrare. Ma infatti il Manzoni non commenta direttamente : lascia che ad esprimere le sue idee siano i personaggi del romanzo (Don Abbondio :"La peste è una scopa di Dio usata per cacciare via i malvagi" ; Fra Cristoforo :"Può essere misericordia (= provvida sventura) o castigo"). La peste però non può che indurre il Manzoni a ricordare i flagelli biblici che Dio ha scatenato contro l'uomo che si allontanava dalla retta via. Ma in realtà nessuno può dire se la peste è bene o male o darle un scopo ; questo è possibile solo nella finzione letteraria : la peste conduce al lieto fine causando la morte di Don Rodrigo. Nella rivolta di Milano ad esempio Manzoni vede il Demonio, simbolo di ribellione (Lucifero).
- I PROMESSI SPOSI COME ROMANZO BORGHESE - Lettura socio - economica
Concentrandoci sulla figura di Renzo notiamo che le sue avventure non sono necessarie per il risultato finale della storia ma per notare il cambiamento che in lui avviene. All'inizio del romanzo egli è figlio di contadini che gli hanno lasciato un pezzetto di terra la cui rendita è integrata dai proventi del lavoro di tessitore. Alla fine si ritrova nella serenissima Repubblica di S. Marco dove i tessitori venivano pagati bene anche per l'assenza delle tasse e per le molte esenzioni fiscali : questi operai potevano poi quindi diventare piccoli imprenditori tessili. Se fosse rimasto a Milano la sua vita socio-lavorativa non sarebbe assolutamente cambiata. Sotto questo punto di vista bisogna sottolineare che il Manzoni era favorevole al Liberismo Economico e contro il sistema economico feudale contrario alla libertà di scambio e alla libera iniziativa economica. Si può dire quindi che il Manzoni scrive un romanzo in cui Renzo da contadino diventa imprenditore tessile grazie alle sue capacità ed alla sua intraprendenza.
Sul piano economico si vede nelle rivolte di Milano come il Manzoni critichi il prezzo calmierato del pane imposto dagli spagnoli ad un punto troppo basso. Il Manzoni giudica invece il prezzo di mercato di qualsiasi prodotto doloroso ma salutare : doloroso perché tende ad essere più alto ma nel frattempo porta al massimo sfruttamento delle risorse ristabilendo l'equilibrio di mercato tra Domanda e Offerta. I Promessi Sposi sono dunque un romanzo borghese, anti-aristocratico, contro il vecchio sistema economico feudale e a favore del Liberismo.
Ma la ribellione è lecita per abbattere una società nemica del progresso e della libertà ? No, perché è qualcosa di demoniaco ed irrazionale che ricorda la ribellione di Lucifero. Non è un caso che Renzo diventi imprenditore quando è maturato anche interiormente = BildungsRoman : il giovane contadino attraverso errori, peripezie, riflessioni e pericoli diventa uomo imprenditore più saggio e più prudente ("Ho imparato a non cacciarmi nei guai, a farmi i fatti miei, ecc. .......") ; ma soprattutto ha imparato che non si fa giustizia con la rivoluzione perché se c'è qualcosa di pericoloso è l'estremismo rivoluzionario = Renzo abbandona la violenza rivoluzionaria rifiutandola.
Crescita ECONOMICA = imprenditore
Crescita MORALE = uomo più prudente e più saggio
Crescita SOCIALE = rifiuto della rivoluzione
A questo punto Renzo introduce la funzione politico sociale della Chiesa : Manzoni, cattolico, pensa che la Chiesa non deve insegnare solo a conquistare il Paradiso ma che ha anche un compito terreno : educare civicamente le classi lavoratrici che non esercitano il potere politico a rifiutare la violenza rivoluzionaria facendo proprio il rispetto delle istituzioni e delle autorità = si vede il Manzoni cattolico-moderato molto vicino alla Restaurazione.
Renzo alla fine è un imprenditore saggio, timorato di Dio e rispettoso delle autorità, mentre era impetuoso ed impulsivo (matrimonio a sorpresa, fantasia di uccidere Don Rodrigo, rivoluzione di Milano). Renzo nato in una società feudale, aristocratica e oppressiva, da semplice popolano impara a non contare sulla violenza per risolvere le questioni ma nell'aiuto di Dio e nelle proprie capacità lavorative
Sursa:balbruno.altervista.org
INNI SACRI
Prima opera dopo la conversione: gli inni sono un componimento religioso simile all'ode = ne voleva scrivere 12, come gli apostoli e come le più importanti ricorrenze Cattoliche, dedicato ognuno ad un Dogma (verità rivelate): ne riuscì a scrivere solo 5: "la Resurrezione"; "il nome di Maria"; "il Natale"; "la Crocifissione"; "la Pentecoste" (unico veramente riuscito: 50 giorni dopo la morte di Gesù scende sugli apostoli lo Spirito Santo)
OPERE TEATRALI
Manzoni coltivò molto la passione per la tragedia tanto che ne scrisse due, tra il 1816 e il 1822, di larghissimo successo:
Il Conte di Carmagnola
Adelchi
Le tragedie sono opere scritte in versi destinate alla recitazione - Sono state riscoperte e rilanciate da Vittorio Alfieri - Presso i Greci era la forma più alta di Arte - Trattano di temi importantissimi con personaggi altrettanto importanti e di alta levatura sociale (non gente umile che poteva essere protagonista solo di commedie a lieto fine), che spesso presentavano un finale tragico - La tragedia tratta di realtà non quotidiane; mentre la commedia è legata a realtà umili e comuni. Entrambe le tragedie del Manzoni sono tragedie storiche in cui l'importanza della storia è fondamentale (Romanticismo =/= per gli Illuministi come Cartesio, studiare storia era come perdere tempo facendo turismo).
DRAMMA DEL POTERE = come nell'Alfieri, nel Manzoni si ritrova un tema comune: i protagonisti iniziano le loro avventure in una condizione di detenzione del potere che perde, ritrovandosi in un mare di guai che conducono al carcere, alla prigionia ed infine alla morte. In questo contesto si inserisce anche il concetto di tragedia storica: ciò che il Manzoni narra sono drammi del potere realmente accaduti e documentati.
Il conte di Carmagnola
Il conte di Carmagnola era un capitano di ventura della prima metà del 1400 che dopo aver prestato servizio a lungo per il Ducato di Milano si trasferì a Venezia per comandare le truppe venete. Il destino volle che fu costretto a comandare anche una battaglia contro le truppe mercenarie di Milano: le sconfisse ma non le inseguì per fare prigionieri (era solito tra due eserciti di soldati mercenari non fare prigionieri e addirittura non inseguire gli sconfitti). Il Senato di Venezia avvisato del comportamento del Conte e anche influenzato da antagonisti dello stesso, lo condannò per alto tradimento alla pena di morte = Dramma del peccato, del potere e dell'ingiustizia. Dalla lettura dell'opera si capisce come il Manzoni simpatizzi essenzialmente per il Conte che rappresenta il Potere Militare, mentre disdegni il Senato che rappresenta il Potere Politico = risalta la simpatia del Manzoni per le virtù militari = Questo fatto è sostenuto dagli avvenimenti storici dei primi anni del 1800: nel 1814-15 si sviluppò il dramma di Napoleone che dopo essere stato sconfitto a Waterloo e dopo aver visto la disgregazione del suo Impero fu costretto all'esilio sull'isola di Sant'Elena; questi avvenimenti sconvolsero soprattutto il Manzoni a causa dell'abuso del potere politico attuato da Austria e Russia nella spartizione dell'Europa e soprattutto dell'Italia.
Adelchi
Adelchi è il figlio dell'ultimo Re Longobardo, Desiderio: i Longobardi furono uno dei popoli barbari che invasero il Centro-Nord Italia dopo la caduta dell'Impero Romano tra il 400 e il 500 d.C. e furono sconfitto da CarloMagno chiamato dal Papa in suo soccorso.
1° atto CarloMagno aveva sposato Ermengarda, figlia di Desiderio ma la ripudia quando dopo essere stato chiamato dal Papa decide di scendere in Italia per combattere i Longobardi. Ermengarda cade in una crisi profonda a causa del suo completo amore per Carlo: dopo il ritorno a casa si ritirerà in un convento per finire i suoi giorni lontano dal mondo. Desiderio decide di muovere guerra contro CarloMagno.
Nel primo atto si delinea lo schema dei personaggi:
Adelchi: figlio di Desiderio;
Desiderio: Re dei Longobardi; Anfrido: fedele scudiero nonché miglior amico di Adelchi; Svarto: soldato ambizioso che con altri suoi compari decide di allearsi con Carlo dubitando delle possibilità di vittoria dell'esercito longobardo.
2° atto
Mentre Pietro (commissario papale) cerca di convincere Carlo a non demordere nonostante l'invalicabilità delle Chiuse, il dicono di Ravenna, Martino, confida all'Imperatore un passaggio segreto per aggirare le Chiuse e attaccare il campo longobardo da un lato indifeso.
3° atto
Nel campo longobardo Adelchi confida ad Anfrido il suo desiderio di Gloria (ideale romantico che si ottiene con grandi imprese) che sente irrealizzabile. I Franchi attaccano e nello scontro Anfrido muore eroicamente. L'esercito longobardo si divide in due: una parte, comandata da Svarto di pone agli ordini di Carlo; l'altra si divide ulteriormente in due e segue Adelchi a Verona, Desiderio a Pavia. L'atto si chiude con un CORO: Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti (T105a - pag. 899); con il coro l'autore dell'opera si riserva una parte per fare commenti = entrano in palcoscenico attori non protagonisti che presentano le riflessioni dell'autore sottoforma di canto.
T 105 A Parole piane = accento sulla penultima sillaba. tronche = accento sull'ultima sillaba. Si parla degli italiani (tema patriottico = tragedia della patria) che combattendosi tra loro rischiano di esporre il fianco agli invasori stranieri. I Longobardi del 700 fanno venire in mente gli austriaci del 1800. I Franchi sono invece i francesi di Napoleone, tiranno illusore che ha dato speranze al popolo italiano di liberarlo dalla dominazione straniera pur essendo lui stesso uno straniero = sin dal Trattato di Campoformio si era capito che i francesi volevano dominare l'Italia. Ma gli italiani di allora non si accorgono di queste finezze e accorrono ad assistere gioiosamente alla sconfitta dei Longobardi dai quali saranno in seguito ancora dominati con l'appoggio dei francesi.
Versi 1-6
Da 2 secoli non si combattono più guerre ed il popolo latino è abituato alla servitù: nel mondo antico, comanda che combatteva in guerra, mentre chi veniva sottomesso era costretto alla servitù = il rumore di battagli è una grande novità.
Versi 7-12 Orgoglio di essere discendenti dei romani che conquistarono il mondo.
Versi 13-18 Timore = del castigo longobardo Il popolo latino vede per la prima volta i suoi dominatori in fuga, sconfitti.
Versi 19-24 Longobardi simili a bestie, "fere", impaurite che cercano affannosamente un nascondiglio, una tana; dove le donne longobarde li guardano senza il solito sguardo superbo e minaccioso e con la faccia pallida, pensosi.
Versi 25-30 La guerra è descritta dal Manzoni cristiano come una cosa bestiale = una caccia: infatti i nobili si allenavano alla guerra in tempo di pace andando a caccia
Versi 31-60 Interviene il Manzoni che si rivolge al pubblico presente a teatro; chiede, infine, in modo altamente ironico se il premio da attribuire ai Franchi per quello che dovettero affrontare è liberare dalla schiavitù un popolo diviso e straniero, di cambiargli il destino.
Ruine = rovine dell'impero romano.
Imbelli: non adatti alla guerra = in (non) bellum (guerra).
Versi 61-66 Franchi e Longobardi si mescolano e governano insieme opprimendo (stare sul collo) il popolo italiano. Servi = greggi = animali: i servi venivano trattati come bestie, come merce da spartirsi. In fin dei conti al popolo latino dominato dai Longobardi successe ciò che è accaduto al popolo padano nel 1800: due popoli stranieri (Francia ed Austria) combattono per il dominio su un altro popolo (Italia). PROBLEMATICHE POLITICHE, STORICHE E RELIGIOSE: la libertà sembra che sia degna solo di coloro che combattono e che vanno in guerra = l'insegnamento di Dio è l'esatto opposto.
4° atto Muore Ermengarda dopo aver appreso la notizia che Carlo ha contratto nuove nozze. Alla scena segue il Coro Sparsa le trecce morbide (T105b - pag. 901).
T 105 B Il coro che viene presentato nell'atto 4° si riferisce alla morte di Ermengarda: TRAGEDIA DEL RIPUDIO. Lei e suo fratello Adelchi sono i due personaggi su cui le tragedia si realizzano: Ermengarda dopo essere stata ripudiata si rinchiude in un convento a Brescia dove morirà per il dolore dato dall'amore per CarloMagno SCHEMA METRICO: strofe di 6 versi settenari, sdruccioli i versi dispari, piani e rimati il 2° ed il 4°, mentre è tronco l'ultimo (= verso un po' artificioso ma adatto al contesto di morte e tragedia del Coro). Con le morbide trecce adagiate sul petto che sussulta affannosamente, con le mani (palme) abbandonate (lenta) e con il viso pallido e sofferente di morte imminente, giace Ermengarda, donna di grande pietà (pia), mentre il suo sguardo, tipico dei moribondi, erra alla ricerca del Paradiso. Intanto il pianto intorno a lei cessa e iniziano le preghiere delle sorelle: una mano gelida e leggera (quella della morte) cala sul suo viso e le abbassa le palpebre oscurando la pupilla azzurra. Ora il Manzoni si rivolge all'anima di Ermengarda = Sgombra, o nobile, i pensieri dolorosi che portavi nella mente angosciata; leva a Dio un puro pensiero di offerta (offriti a Lui): il Paradiso è la meta della tua lunga sofferenza terrestre. Il destino terreno della povera Ermengarda era immutabile: Dio non le avrebbe mai concesso di dimenticare Carlo come lei voleva perché per destino per salire in Paradiso tra i Santi doveva soffrire in terra = la sofferenza la rende santa al cospetto dei Santi del Paradiso. [TEMA DELLA DIMENTICANZA: con questo termine si vuole indicare il fatto che nei momenti infelici della vita salgono alla mente i ricordi felici = il Manzoni richiama spesso questo tema, quanto nei Promessi Sposi, tanto nel "5 Maggio".] Nel buio delle notti trascorse insonni tra i chiostri, da sola, ai piedi degli altari a chiedere a Dio di dimenticare Carlo, venivano inconsciamente alla memoria tutti i momenti più lieti passati alla corte francese con l'amato quando, ignara del suo traditore avvenire, ubriaca di felicità, respirò la salutare aria della terra Franca apparendo in mezzo alle spose di Francia. Quando da una collina vedeva, con i capelli ornati da gemme, le immagini (Carlo che cavalcava chino a crine sciolto, seguito dalla furia degli altri cavalli e dai cani ansanti che costringevano il cinghiale ad uscire dal cespuglio, scoprendosi) della caccia culminante con l'uccisione del cinghiale: Ermengarda alla vista del sangue impallidiva e ritirava lo sguardo, per un terrore che la rendeva più bella. Infine Carlo, toltosi la maglia di ferro si andava a lavare alla Mosa (fiume di Aquisgrana) per levarsi di dosso il nobile sudore della fatica ( il sudore degli italiani e un "servo sudore").
Dal verso 61 all'84 Manzoni fa una similitudine; parla della Rugiada (che di notte da' refrigerio al fiore, ma è anche la parola amica di una suora che le dice di pregare sempre e solo Dio) e del Sole (ricordo di Carlo che torna, e anche oggetto della natura che quando sorge uccide il fiore con la forza e l'impetuosità dei suoi raggi).
Il Manzoni ora torna a rivolgersi ad Ermengarda. Scaccia dalla tua mente angosciata le passioni, eleva a Dio un canto eterno: nel suolo (= Lombardia) che dovrà ricoprire le tue spoglie sono sepolte altre spose che come te sono morte di dolore causato dall'amore, sono donne che hanno perso il fidanzato o i figli morti in battaglia, trafitti dalle spade longobarde. Tu, che discendi dalla famiglia regnante dei Longobardi, colpevoli oppressori, la cui legge era quella del più forte e la virtù stava nel fatto di essere maggiore di numero e la gloria nel non aver pietà dei deboli, fosti collocata dalla PROVVIDA SVENTURA tra gli oppressi: muori dunque tra il pianto delle suore, dove nessuno oserà insultare le tue spoglie. Muori e sul tuo volto torni la pace com'era quando, ignara di un traditore avvenire (v. 31), esprimeva solo lievi pensieri. Così come il sole tramontante dietro i monti, da dietro le nuvole trova uno spiraglio per arrossare il vibrante occidente ed augurare al religioso contadino un giorno sereno.
PROVVIDA SVENTURA = sventura mandata dalla provvidenza: noi viviamo in un mondo di malvagi destinati all'inferno: Dio manda a qualcuno di questi la sventura per purificarli e renderli diversi dai malvagi: in questo modo chi prima era oppressore diviene oppresso (per Manzoni o sei l'uno o sei l'altro: non puoi stare nel mezzo) = Ermengarda da oppressore, grazie alla Provvida Sventura diventa oppressa e le si aprono così le porte del Paradiso. - La vicinanza dei due termini costituisce un ossimoro: figura retorica che consiste nell'accostamento di due termini di significato opposto: se soffrirai sulla terra avrai la possibilità di conquistare il Paradiso. Segue l'accordo tra Svarto, ora nobile del Regno dei Franchi, e il Duce Guntigi, che aveva ricevuto l'incarico da Desiderio di difendere le mura di Pavia: non mantiene l'impegno e le forze di Carlo potranno entrare in Pavia.
5° atto Inizia con un monologo di Adelchi che ha appena ricevuto notizia dell'occupazione di Pavia e richiesta del suo esercito stremato di arrendersi ai Franchi che assediavano Verona: decide di arrendersi ma di fuggire verso Bisanzio. Le truppe franche sono più veloci di lui e lo arrestano ferendolo a morte: fa però a tempo a chiedere di incontrare il padre e Carlo al quale chiederà una dignitosa prigionia per il padre: l'Imperatore acconsentirà e Adelchi morirà.
T 105 C Conclusione dell'Adelchi: disfatta dei Longobardi; prigionia di Desiderio; morte di Adelchi. [Collegamento con la morte di Ermengarda: perché Dio vuole salvare qualcuno? Perché c'è qualcuno che nell'intimo presenta animo e sensibilità cristiana, odiando la violenza pur dovendoci convivere = Ermengarda infatti viene salvata da Dio pur senza aver ottenuto successo terreno, che spetta solo agli oppressori che non raggiungeranno il Paradiso] Dai primi versi si capisce come il Manzoni simpatizzi per Adelchi e gli attribuisca un animo cristiano, mentre al padre l'autore riserva sempre un animo guerriero attaccato ai beni terreni = anche la morte di Adelchi rappresenta un intervento della Provvida Sventura. Infatti si nota come il giovane ne capisce il significato rendendosi conto dell'esistenza della forza della volontà divina che pur portando sventura non è crudele. Versi 23-4-5 = Desiderio ricorda le qualità del figlio, ma solo quelle militari e terrene denotando di non essere pronto all'incontro con Dio non avendo ancora afferrato il significato profondo dei valori cristiani. SOLILOQUIO DI ADELCHI (veri 26 ... 52) Il mistero della vita è comprensibile solo in punto di morte perché durante la vita non si ha il tempo per farlo = per una persona che sta per morire non è importante la perdita del regno ma quello che sarà di lui dopo la morte. Gli anni di prigionia che il padre sta per affrontare saranno molto più belli di quelli passati a regnare perché durante la prigionia non si ha la possibilità di commettere alcun torto o ingiustizia: nessuno così in cielo potrà annotare ulteriori tue angherie a causa delle imprecazioni che coloro che tu opprimi ti mandano per essere un tiranno oppressore (diverrai un oppresso salvato da Dio). Adelchi manifesta il disprezzo del potere e gli uomini che lo detengono: "godi perché non sei più Re, perché ti è chiusa ogni via all'azione (non potrai più fare niente che faccia soffrire qualche altro essere umano): su questa terra non c'è spazio per delle azioni gentili, nobili ed innocenti: o si fanno torti o si patiscono (o oppressi o oppressori) = Visione pessimistica del Manzoni. Il mondo è posseduto dalla violenza (legge del più forte) che si fa chiamare diritto del più forte, di colui che fa le leggi. I primi longobardi seminarono la barbarie che fu coltivata dagli altri successori e la terra oramai non da' altro che sangue ed ingiustizie. Godi dunque ancora di più per non essere Re: governare su gente ingiusta, i Longobardi, non è bello. Tu l'hai provata questa amarezza, e anche se così non fosse (cioè, se anche tu avessi trovato piacere nel governare un popolo crudele), ricordati che comunque tutto finirà sempre con la morte: tutto si concluderà con il diventare nulla (diverso dal nulla eterno del Foscolo). Il giorno della vittoria (morte di Adelchi) è felice per Carlo ma resta comunque il fatto che anche lui prima o poi morirà.
A questo punto Carlo si lascia impietosire dalle parole di Adelchi e non vuole più essere chiamato nemico. Adelchi notando questa leggera conversione capisce che può ottenere qualcosa da Carlo: pur non chiedendogli la liberazione del padre, gli chiede che Desiderio possa ottenere una prigionia senza sofferenze in cui i duchi longobardi traditori non possano apparire al suo cospetto.
Negli ultimi versi si nota la totale conversione di Adelchi che felice si abbandona alla morte. Analizzando il personaggio di CarloMagno si nota come, anche se nella tradizione cristiana egli fosse considerato l'Imperatore Cristiano, il Manzoni sottolinea il fatto che Carlo nell'Adelchi abbia preferito la Ragion di Stato al Vangelo: Manzoni vede Carlo come uomo di potere e non di Chiesa.
POETICA DEL MANZONI
La storia è di fondamentale importanza sia nel Manzoni che nel Romanticismo che vedono nella storia Medievale la culla della civiltà. Per Manzoni, dunque, la storia ha grandissima importanza (tragedie, romanzi e poesie storici: con un legame fondamentale con gli avvenimenti storici = Promessi Sposi e 5 Maggio). La storia è importante perché si contrappone al mito, alla leggenda del Neoclassicismo: i miti sono favole inventate; la storia è realtà, un insieme di vicende realmente accadute. Manzoni ama la verità e pensa che il primo compito di un uomo di pensiero sia giungere a scoprire la verità, non di certo attraverso i miti (favole che a volte contengono falsità e bugie) ma con vicende storiche. Infatti gli Dei pagani erano falsi: idee pagane false.
VERITA' = STORIA
In Manzoni c'è la convinzione che la storia si sviluppi non con il caso ma con l'intervento di Dio che prende a cuore la storia dell'uomo per far raggiungere degli scopi-obiettivi agli uomini e li aiuta come se fosse il regista di un film = l'uomo è condotto verso la lontananza dall'essere animale e verso l'evoluzione. [Voltaire pensava invece che Dio non intervenisse in soccorso degli uomini] Quindi nella storia si può scoprire cosa Dio vuole dall'uomo: il suo progetto per l'umanità anche se nella storia ci sono cose incredibili che portano a pensare come può essere che nel progetto di Dio ci sia anche questo. Manzoni non è però uno storico ma un poeta che scrive di fatti realmente accaduti. Ma allora, che rapporto c'è tra poesia e storia? Tra poeta e storico? Per Manzoni esiste un differenza: lo storico si occupa dei fatti, della sequenza degli avvenimenti e di come questi si sono svolti stabilendone cause e conseguenze; il poeta non si distacca dalla storia ma cerca di capire come questa è stata influenzata ed ha influenzato l'animo umano, degli uomini che sono stati i protagonisti della storia: quali sono i sentimenti e le passioni che li hanno portati ad agire in quel modo. Quindi il Manzoni indaga nell'animo di chi ha fatto la storia per ottenere un quadro di come agiscono gli uomini e di cosa (passioni e sentimenti) li spinge a comportarsi in un certo modo. Ma un poeta come fa a capire ciò? Se usa alcuni documenti, quali sono? Grazie all'immaginazione e alla simpatia. Simpatia sta per patire insieme: provare le stesse passioni di un'altra persona = il poeta ha questa capacità
T 104 A TESTO DI POETICA = testo che spiega cosa l'autore intende per poesia e quale è il suo ruolo nello scrivere, che senso ha scrivere, quale è l'utilità di quello che fa.
UNITA' DEL TEMPO E DEI LUOGHI
Nel 1500 gli studiosi scoprono un libro di Aristotele che si credeva perso, in cui si parlava della tragedia: precisamente il filosofo greco dettava gli scopi ma soprattutto tre regole fondamentali dello scrivere tragedie. 3 REGOLE o Unità: di azione (raccontare un solo fatto), di tempo (un fatto accaduto in un giorno), di luogo (un fatto accaduto in un solo luogo); se le tre unità non vengono rispettate la tragedia perde di intensità. Queste regole in pieno clima Neoclassico diventano quasi sacre. Ma il Conte di Carmagnola non rispetta l'unità di tempo e di luogo, allontanandosi quindi dalle regole sacre. Monsieur Chovet critica in un suo articolo questa "mancanza". Manzoni gli risponde che non ha rispettato le due unità perché vuole rimanere fedele alla storia: le tragedie per essere capite, devono essere spiegate dall'inizio. La tragedia di un popolo non si svolge in un solo giorno, in un solo luogo.
Il Manzoni spiega quindi l'importanza che la storia ha per lui, svincolandosi così definitivamente dalla poetica neoclassica e dal canone dell'imitazione: aderisce completamente alle idee neoclassiche.
I° Paragrafo = la poesia deve occuparsi degli eventi storici. II ° Paragrafo = il Manzoni parla della differenza tra poeta e storico sottolineando che il primo analizza soprattutto ciò che è avvenuto nell'animo degli uomini di storia: il poeta è lo Sherlock Holmes dell'animo umano = gli storici non hanno mai provato a capire cosa pensava e provava l'Adelchi morente. Il poeta è invece capace di ciò se ha sufficiente fantasia: "Tutto ciò che la volontà umana ha di forte e misterioso, tutto ciò che la sventura ha di religioso e di profondo, il poeta può indovinarlo, o, per dir meglio, può vederlo, comprenderlo ed esprimerlo." (rigo 23)
Manzoni riafferma la convinzione che in ogni sventura c'è qualcosa di religioso e di profondo: nel senso che la gente sventurata è più religiosa e meno superficiale = applicato ad un Re (Adelchi) ciò significa che egli inizia a pensare non nel senso di "Come gli altri lo hanno ridotto" ma di come "Lui ha ridotto gli altri" e addirittura lo spinge ad odiare la sua precedente posizione di monarca = lo storico non recepisce queste sensazioni.
T 104 B (dal rigo 34) Manzoni dà la prima regola di condotta che lo scrittore deve rispettare: uno scrittore non deve scatenare nel lettore le passioni, soprattutto quelle peccaminose, distruttive: è necessario insegnare al lettore a non immedesimarsi nel protagonista e di evitare di farsi prendere dalle passioni dello stesso perché se lo facesse avrebbe la tentazione di provare la situazione narrata: invece l'arte ha lo scopo di educare il lettore a rispettare le regole dell'etica (dominare le passioni) e della morale = l'arte deve insegnare come si possono evitare e dominare le passioni. [si nota dalla lettura come il Manzoni abbia ricevuto un insegnamento di tipo cristiano nonostante le basi illuministiche] Per questo l'artista non deve dunque indugiare nelle passioni peccaminose, quali che esse siano. E' significativo in merito a ciò come i Promessi Sposi inizino da un momento temporale posteriore al "Fatto" = questo è stato fatto per evitare la descrizione dei pensieri osceni e peccaminosi e delle avances di Don Rodrigo, che poi sarebbero stati raccontati da Lucia con un dono decente, ma soprattutto con molto riguardo; oppure in merito alla tresca della Monaca di Monza troviamo solo la frase: "e la sventurata rispose". RIGO 51 = non si deve mai rinunciare alla ragione a favore della passione per quanto questa possa essere attraente, poiché le passioni discendono dalla nostra debolezza e dai nostri pregiudizi = Manzoni pur essendo Romantico per molti aspetti, non accetta il valore supremo del Romanticismo: "sentimento e passione - immaginazione e fantasia".
IL CINQUE MAGGIO
Il Manzoni dedica a Napoleone questa poesia dopo avere appreso della sua morte: Napoleone era stato il dominatore, l'eroe del tempo che nonostante la grande sconfitta di Waterloo aveva infiammato tutti gli europei. Prima di allora il Manzoni non aveva scritto niente su di lui Manzoni apprende la notizia della morte dalla Gazzetta di Milano di un giorno di Luglio: apprende non solo il fatto del decesso ma anche che Napoleone prima di morire aveva chiesto di ricevere i Sacramenti, volendo morire così da cristiano = questo aspetto della morte di napoleone infiamma il Genio di Manzoni che scrive un'ode Religiosa (che passerà alla storia come un'ode civile) in quanto parla di una conversione come molte altre nel Manzoni: la sua e di altri suoi personaggi (Innominato). SCHEMA METRICO: è come quello di Ermengarda = questo significa che la morte di Napoleone deve portare alla memoria quella di Ermengarda. I due decessi hanno in comune la sventura e la riacquistata fede, ma soprattutto la Provvida Sventura. Leggendo l'ode si capisce come Napoleone voleva essere come Dio, come era megalomane, in eterna ricerca del successo terreno: l'intervento della Provvida Sventura lo confina nella solitudine e nella disgrazia, portandolo a capire la vita e più vicino a Dio.
I° - II° Strofa Ei fu Ei = egli, il Fu = passato remoto, azione finita Manzoni ci vuole far capire due cose: 1) come l'epopea di Napoleone non esista più: Napoleone appartiene al passato; 2) le due parole molti brevi sia da scrivere che da pronunciare sono in corrispondenza con la vita di Napoleone a confronto con l'eternità di Dio.
Immobile L'aggettivo indica lo stato di shock che colpì l'umanità intera alla notizia della morte di Napoleone = le persone rimasero immobili come il cadavere di Napoleone. [Il cadavere viene definito spoglia secondo il concetto cristiano: è la parte della nostra persona che imprigiona l'anima e che resta abbandonata quando l'anima se ne va]
Nel seguito dell'ode verrà esaltata la vita mobile, frenetica che Napoleone ha condotto, mai fermo nello stesso posto per troppo tempo, sempre in movimento per dominare il Mondo = in contrasto con l'immobilità del cadavere.
Immemore La spoglia è di opinione comune che possa essere fredda o immobile ma immemore è difficile = il Manzoni con questo termine ha voluto sottolineare che quando interviene la Provvida Sventura, nasce un dramma dei ricordi (verrà esplicitato meglio questo fatto nei versi successivi dove Manzoni narrerà dei pensieri di Napoleone in esilio).
Uomo Fatale Il termine secondo un significato passivo (che non ha senso in un'ode religiosa) indica il fatto che Napoleone sia stato mandato dal fato; secondo quello attivo (e giusto) il Manzoni ha voluto dire che Napoleone ha tenuto nelle sue mani il destino dell'Europa.
III° - IV° STROFA Folgorante "Che scaglia le folgori": se guardiamo alla mitologia greca il Dio che scagliava le folgori ai sudditi che non ubbidivano agli ordini era Giove il sommo degli Dei = Napoleone viene visto come una somma divinità.
Uno scrittore romantico come Manzoni pensa che la sua forza stia nell'ispirazione che lo spinge a scrivere, nel suo GENIO (che deriva da generare, creare come se l'opera fosse un figlio). Questo Genio non ha mai spinto Manzoni a scrivere qualcosa su Napoleone sino al momento della sua morte: il Manzoni parla dunque in queste strofe della sua ispirazione.
"Il mio genio non mi ha spinto a scrivere di Napoleone né quando vinceva, né quando perdeva come invece hanno fatto molti altri; ma ora la morte di Napoleone lo ha ispirato" e dunque il Manzoni scrive l'ode. L'autore scioglie dunque alla tomba un cantico (poesia religiosa) ispirato dal suo Genio.
V° STROFA Il Manzoni nomina le imprese di Napoleone attraverso un ritmo binario per comunicare l'idea di velocità: che viene espressa subito dopo con le parole Baleno (rapidità con cui Napoleone prendeva le decisioni) e Fulmine (rapidità con cui Napoleone eseguiva le decisioni). Le imprese di Napoleone sono tanto grandi e vaste da essere in netto contrasto con la piccola e sperduta isola di S. Elena.
VI° STROFA "Fu vera gloria?" Questa è la questione fondamentale dell'ode: infatti rispecchia il mito fondamentale del Romanticismo: la GLORIA. Manzoni si pone questa domanda: i contemporanei pensavano forse di sì perché non si aspettavano che dopo grandi come Carlo Magno ce ne sarebbero potuti essere altri. Infatti altri personaggi famosi dell'epoca se lo chiesero: Foscolo (è passato dall'ammirazione all'odio per il tradimento) e Beethoven (scrisse addirittura un'opera, "Eroica", dedicandola a Napoleone ma togliendo successivamente questa dedica per aver notato in lui un carattere di tiranno). Manzoni non risponde direttamente ma lo fa capire dai versi che seguono: noi contemporanei chiniamo la fronte davanti a Dio che volle stampare in Napoleone una delle più grandi tracce della sua capacità creativa = Napoleone non dimostra la gloria dell'uomo ma quella di Dio creatore. Più avanti il Manzoni dirà che quella di Napoleone non può essere vera gloria perché è stata conquistata sulla pelle di migliaia di persone uccise.
VII° - VIII° STROFA Manzoni passa dunque da buon poeta all'analisi psicologica di Napoleone e della sua figura. Verso 43 = tutto egli provò: la più grande gloria mai pensata dopo il pericolo, la fuga e la vittoria, la reggia ed il triste esilio, due sconfitte (Lipsia e Waterloo) e due trionfi (incoronazione ad Imperatore e 100 Giorni). Per indicare la sconfitta è significativo che il Manzoni abbia usato la parola polvere: (lo stesso termine lo aveva usato per descrivere la terra (v.11)) la parola fa venire in mente un soldato ferito a morte sul campo di battaglia che cade a terra privo di vita alzando la polvere depositatasi per la confusione [metafora] = Napoleone viene accostato ai soldati che sono morti per la ricerca della gloria di un oppressore che morirà da oppresso. Invece per indicare il trionfo il Manzoni ha usato la parola altare, per creare una corrispondenza con il sacrilegio di Napoleone che con le vittorie sul campo di guerra voleva diventare come Dio.
Verso 37 = Napoleone ha provato la gloria tempestosa e colma di trepidazione di chi ha in mente un grande disegno, un mega progetto: diventare, da umile e sconosciuto soldato di Corsica, il padrone del mondo. Provò per questo l'impazienza di un cuore che indocile deve ubbidire, consapevole e pensante al futuro che verrà: per esempio quando il Direttorio lo costrinse alla campagna d'Italia. Napoleone poi realizzò anche il suo desiderio: divenne imperatore, un sogno che per molti se non tutti è folle. FOLLIA = la parola in questo contesto ha due significati: 1) impossibile; 2) in senso religioso/biblico la follia corrisponde al peccato di orgoglio (quello della creatura che vuole essere superiore al suo stesso creatore).
IX° STROFA Egli pronunciò il suo nome: 2 secoli ('700 e '800) in lotta l'uno contro l'altro si rivolsero a lui sottomessi, aspettando il destino della loro controversia: lui doveva decidere il vincitore. Egli impose dunque il silenzio e si sedette, arbitro, in mezzo a loro. '700 = Antico Regime
'800 = rappresenta il nuovo, ciò che è figlio della Rivoluzione, il secolo borghese.
Napoleone fu il mediatore tra le esigenze conservatrici ed esigenze rivoluzionarie, tra quelle della borghesia e quelle dell'aristocrazia.
X° STROFA Eppure, benché egli fosse così grande, scomparve dalla scena politica e terminò nell'ozio la sua vita, confinato in una piccola isola, fatto oggetto di immensa invidia, pietà profonda, odio che neppure l'esilio poteva estinguere e d'indomato amore (dei generali e dei soldati che lo seguirono fino in esilio)
FINO ALLA FINE Manzoni immagina la sofferenza di Napoleone che trascorre come Ermengarda il DRAMMA DEI RICORDI. L'autore introduce quindi una similitudine come quella di Ermengarda, in cui i due termini centrali sono la tempesta del mare ed il naufragio
COME l'onda si abbatte sulla testa del naufrago; COSI' il cumulo dei ricordi schiaccia l'animo di Napoleone. Oh quante volte si mise a narrare le sue venture, le sue memorie ai posteri (verso 31) attraverso un libro (forse questa è l'unica funzione utile dei ricordi) ma Napoleone non ci riuscì perché i ricordi che sembravano interminabili (= eterne: 1) atte a sfidare la fama del tempo, ma nulla sulla terra è eterno = assurdo per il Manzoni; 2) contestazione alla poesia eternatrice del Foscolo Neoclassico) e che stancarono eccessivamente la mano di un uomo d'armi e non abituato allo scrivere.
STETTE = quando Napoleone è assalito dai ricordi rimane come un cadavere: immobile ed inerte senza poter fare più nulla
POLISINDETO = accostamento di tante frasi o espressioni unite dalla congiunzione "E". I ricordi di Napoleone sono soprattutto quelli di tipo militare e non quelli di tipo politico: perché la vita militare è caratterizzata da mobilità ed azione in contrasto con l'inerzia dell'esilio. Inoltre Manzoni ha sempre avuto stima per le virtù militari e non per quelle politiche.
AIUTO = ora che Napoleone è sconfitto (oppresso) il Cielo0 gli da' un aiuto: la Fede che pietosa lo trasportò in un'aria più serena. La fede lo condusse, per i fioriti sentieri della speranza, ai campi eterni (= Paradiso, in contrapposizione con i campi di Battaglia) (in contrapposizione con eterne pagine verso 71). Inoltre lo avviò al premio (Paradiso) al cui confronto la gloria passata, terrena, non è nulla, comunque finirà.
GLORIA = (verso 31) il Manzoni risponde: la vera gloria è quella che non passa mai, quella che si conquista con la santità e non con le imprese militari e terrene.
BELLA IMMORTAL = Fede, abituata a trionfare, scrivi anche questo perché più superba altezza mai si chinò dinanzi al Signore, al Mistero della Crocifissione. Tu, Fede, dal cadavere di un uomo stanco disperdi ogni malvagia parola; il Dio che abbatte ed innalza, che fa soffrire, ma sa anche consolare, si posò al fianco di Napoleone, seduto sul suo letto.
I PROMESSI SPOSI
Nella primavera del 1821 Manzoni si ritira nella sua casa di Brusuglio dove, tra la quiete del posto, matura l'idea del romanzo grazie ad alcune lettere sulle vicende storiche di Milano del 1630. Manzoni inizia a scrivere i primi due capitoli e l'introduzione il 24 Aprile 1821, ma la prima stesura completa si ha nel Settembre 1823 = la copia di quest'anno non fu mai pubblicata e rimase come manoscritto con il nome di "Fermo e Lucia". La critica considera il Fermo e Lucia non come un abbozzo del Capolavoro ma come un romanzo diverso ed autonomo. La sua struttura è l'insieme di blocchi narrativi autosufficienti. Il lavoro è diviso in toni: primo tono che narra le peripezie dei due promessi che scappano per sottrarsi alle prepotenze feudali di Don Rodrigo; poi tutto il secondo e parte del terzo ("Romanzo Campagnolo di Lucia e "Romanzo cittadino di Fermo")
FERMO = è colui che non sta mai fermo, ma il suo muoversi non produce alcun effetto; la storia finisce bene non grazie a lui ma per la conversione dell'Innominato.
Il Fermo e Lucia si differenzia tantissimo dai Promessi Sposi per: 1) l'impronta saggistica = dovuta al dichiarato intento pedagogico della poetica manzoniana. Gli excursus storici e il giudizio morale hanno un peso maggiore della linearità del racconto (Romanzo Saggio), storia vera e propria in favore della cronaca di costume e del quadro sociale;
2) Antitesi Manichea (contrappone i personaggi a coppie: uno buono, l'altro malvagio) - Manicheismo = religione orientale che distingue il mondo in Bene ed in Male. Nel Fermo e Lucia i personaggi sono o solo buoni o solo cattivi = figure manica di Monza: nasce un contrasto violento tra vizio e virtù che nei Promessi Sposi è più sfumato.
3) ha il carattere di un Romanzo Nero (rappresenta violentemente il contrasto tra vizio e virtù: ci sono personaggi satanici, atmosfere tenebrose, delitti mostruosi) = tra la fine del 700 e i primi dell'800 andava di moda raccontare storie angoscianti di cui il Manzoni era un avido lettore. Nel Romanzo nero c'è uno scontro pazzesco tra vizio e virtù e c'è la presenza di personaggi bestiali e diabolici che si accaniscono contro vittime innocenti. Questo stile era stato iniziato dal marchese de Sad (da cui deriva sadismo) che scrisse la storia di Sodoma e Gomorra e che Pasolini tradusse in un film, Salò (in francese = sporcaccione)
4) l'Innominato nel Fermo e Lucia viene presentato molto più approfonditamente mentre nei Promessi Sposi si parla del disgusto che durante la conversione provò per il suo passato peccaminoso. Nel Fermo e Lucia l'Innominato è il Conte del Sagrato 5) Fermo rispetto a Renzo si muove di più, però senza utilità.
IL CONTE DEL SAGRATO
L'innominato viene descritto come un personaggio satanico, che gode a far del male; non c'è giustizia; si muove per capriccio. Si rivolge a lui un debitore per essere protetto dal creditore, il quale non si era mai sottoposto alle angherie del Conte; il quale lo attende sul Sagrato della Chiesa col fucile puntatogli addosso e quando lo ha sotto mira lo uccide. 1) Il conte è un personaggio ispirato dal Manzoni da un vero uomo, un feudatario crudele di nome Bernardino Visconti poi convertitosi = si ispira alla storia. 2) Nei Promessi Sposi (pubblicati definitivamente nel 1827 e poi riscritto in lingua più colta nel 1840) scompare questo delitto, come anche altri avvenimenti troppo cruenti: il Manzoni ha eliminato questa parte della storia perché colui che la leggesse non crederebbe alla conversione di un uomo tanto crudele. Nei Promessi Sposi si tacerà sui suoi delitti, si dice che li ha commessi senza descriverli
3) La folla è vera protagonista dei Promessi Sposi = assalto ai forni delle Grucce e protesta del pane. Manzoni non ama la folla = infatti viene descritta con giudizi negativi = è una massa amorfa, senz'anima, mossa dall'istinto della conservazione; è un cosa. La folla non è capace di compiere scelte razionali; è capace solo di atti violenti, vogliosa di sangue, è meschina e non conosce valori nobili.
La folla scappa senza proteggere il creditore = non prova pietà. la folla è poi in grado di far perdere la ragione anche a un uomo che la possiede = è una forza bruta, nella folla si perde la responsabilità morale dell'individuo = uomo calmo allo stadio violento. Ma chi non ama la folla non può amare la Rivoluzione = Manzoni dà giudizio negativo alla Rivoluzione Francese ma non fu un sostenitore della Restaurazione = è un patriota = oppositore alla Restaurazione che appartiene però alle sette segrete moderate = dare potere al popolo è per il Manzoni sbagliato, è contrario, scrive anche un'ode (23 Marzo 1821 a sostegno dei moti carbonari poi falliti). Manzoni è contro i privilegi aristocratici = solo un aristocratico può essere favorevole alla Restaurazione. Promessi sposi è un'enunciazione di questi soprusi. Per Manzoni la folla è l'ambiente del demonio. Nel Fermo e Lucia la storia di Gertrude occupava ben 6 capitoli, nei Promessi Sposi solo 2; Manzoni sostenitore della moralità dell'arte ritiene sbagliato descrivere ampiamente e dettagliatamente i personaggi negativi: con i loro crimini si rischia di contagiare il lettore facendolo diventare anche egli un personaggio negativo; l'artista oltre che divertire deve educare.
Manzoni scrive nel 1827 quando l'Italia non esisteva, non esisteva neanche una lingua comune (Perché adesso?!!!) ma numerosi dialetti = Manzoni vuole che i Promessi Sposi sia un romanzo che aiuti l'unità d'Italia = un Romanzo che possa essere letto da tutti gli italiani; lui trova questa lingua nel fiorentino = lingua viva già parlata e no solo scritta = il fiorentino parlato dalla persone colte, non del popolino. Firenze è la capitale letterale e culturale dell'Italia = tutti hanno letto Manzoni, Petrarca, cioè il fiorentino.
Franco Fido = crea il SISTEMA DEI PERSONAGGI = saggio del critico ancora vivo. alla domanda se si poteva fare un riassunto dei Promessi Sposi lui aveva risposto affermativamente creando il sistema dei personaggi. Franco Fido divide il Romanzo in due parti = Manzoni ha voluto fare un primo e un secondo tempo. Dal primo al 19° corre la prima metà, del 20° al 38° corre la seconda. Leggendo ci si rende conto che nei primi 19 capitoli la storia ha date caratteristiche con storia e personaggi, nella seconda parte altre caratteristiche.
1) La prima metà ha come tema principale la giustizia = è stata commessa un'ingiustizia da Don Rodrigo e le sue vittime con l'aiuto di Fra Cristoforo cercano di porvi rimedio = ripristinare la giustizia, il matrimonio deve celebrarsi. Divide i personaggi in:
a) Vittime: Renzo = fantastica di uccidere
b) Oppressori: Don Rodrigo
c) Mediatori:
1) protettori della vittima = Fra Cristoforo
2) strumenti = Don Abbondio che non celebrando il matrimonio diventa uno strumento di Don Rodrigo. Il romanzo inizia da Don Rodrigo il quale rompe l'equilibrio senza il quale il matrimonio si sarebbe normalmente fatto = non si potea fare Romanzo. Don Rodrigo va da Don Abbondio il quale cerca di convincere Renzo ad aspettare ancora a sposarsi (non tutte le carte sono a posto); Renzo chiede aiuto a Fra Cristoforo che non riuscendo a convincere Don Rodrigo finisce con una minaccia = Verrà un giorno...... Tutti gli espedienti attuati dalle vittime e dai mediatori (protettori della vittima) per ripristinare la giustizia son falliti. Agnese manda Lucia in convento.
2) La seconda parte presenta il tema principale della Misericordia di Dio = prima c'era stato un sopruso; ora abbiamo una grazia; Dio tocca l'innominato e lo converte.
a) L'Innominato anche se ormai stanco di commettere soprusi per abitudine convince Egidio suo amico, amante della Monaca di Monza (strumento dell'Innominato) la quale la consegna all'Innominato; costui non la consegna però a Don Rodrigo ma al Cardinale Borromeo perché intanto si è convertito; il quale la riconsegnerà al legittimo sposo Renzo. Si è dovuti però scendere nella seconda parte dove c'è l'intervento di Dio, della Provvidenza che convertendo l'Innominato rende possibile la riconciliazione tra Renzo e Lucia; nella prima metà invece, dove tutto è fatto da uomini non si arriva a nessuna soluzione del problema, Fra Cristoforo che pensava di risolvere tutto fallisce nell'intento.
Nella prima parte le frecce hanno un andamento antiorario, in parte della seconda parte del romanzo, il movimento diventa orario solo dopo la conversione dell'Innominato; l'andamento antiorario indica che tutto avviene contro natura; l'uomo che sostituisce la sua volontà a quella di Dio è una cosa innaturale. Le frecce tratteggiate rappresentano rapporti potenziali che si sarebbero potuti verificare; di fatto questi personaggi non si sono mai trovati l'uno di fronte all'altro. Renzo ..... Don Rodrigo = Renzo sarebbe morto. Lucia ..... Don Rodrigo = l'avrebbe rapita = cose che Manzoni non vuole.
IL NARRATORE DEI PROMESSI SPOSI
Il narratore non è colui che scrive le vicende (scrittore) ma bensì colui che le racconta : può essere interno (se è uno dei personaggi coinvolti nel racconto, spesso il protagonista) oppure esterno (quando non è una persona che entra a far parte dei personaggi dell'intreccio). I Promessi Sposi hanno un narratore esterno che oltretutto è onnisciente, cioè che sa tutto dei personaggi (chi sono , il loro passato, le loro intenzioni e persino i loro pensieri più nascosti), che interviene commentando l'operato dei protagonisti delle vicende (= ad esempio il Manzoni descrive Don Rodrigo "Un uomo fuori di sé non sa quel che dice") e a volte interrompendo la narrazione dei fatti per effettuare quelle che nei Promessi Sposi si definiscono "digressioni storiche". Inoltre il Manzoni disponendo di un criterio oggettivo quale la fede può giudicare i suoi personaggi in quanto la Fede stessa gli da' delle certezze e dei valori certi.
- Illuminismo e Cristianesimo
Manzoni è diventato uno scrittore molto vicino al Romanticismo pur avendo ricevuto un'educazione illuminista ed anticonformista (che non fu rifiutata) ; è significativo quindi che i Promessi Sposi siano un Romanzo centrato sul tema del rischio che corre la Famiglia a causa della passione peccaminosa esterna (Don Rodrigo) = è quindi un Romanzo scritto in difesa del Santo vincolo del Matrimonio. Manzoni continua quindi a essere illuminista conservando il principio base per il quale la ragione è fondamentale e che condanna il vizio, la passione, il pregiudizio e la superstizione (es. : la peste è causa degli untori). Manzoni sembra dunque avvicinarsi alle idee di Voltaire : punto di raccordo è il terremoto di Lisbona a cui la gente attribuisce una causa dettata dalla superstizione. Nonostante questa affinità nella disgrazia della pesta manzoniana vediamo, oltre a similitudine, anche alcune importanti differenze : le cause naturali e fisiche se le chiedono entrambi, ma Manzoni non si ferma a questo perché crede in Dio : infatti si inoltra nelle indagini pensando a come Dio stesso possa avere a che fare con la peste, se Lui l'abbia permessa senza motivo, se Lui ne sia rimasto indifferente, se la peste stessa non sia parte dei suoi progetti. Voltaire non si spinse così in là perché non credeva in Dio. Manzoni si trasforma in Metafisico (colui che studia le cause sovrannaturali dei fenomeni) che Voltaire definiva Cosmoscemologia (Pangloss).
Le domande che si pone il Manzoni vanno dunque al di là della ragione, rientrano nel campo del sovrannaturale, non scientifico, delle cause naturali che sono soggettive : ognuno dà la risposta che vuole senza poterla dimostrare. Ma infatti il Manzoni non commenta direttamente : lascia che ad esprimere le sue idee siano i personaggi del romanzo (Don Abbondio :"La peste è una scopa di Dio usata per cacciare via i malvagi" ; Fra Cristoforo :"Può essere misericordia (= provvida sventura) o castigo"). La peste però non può che indurre il Manzoni a ricordare i flagelli biblici che Dio ha scatenato contro l'uomo che si allontanava dalla retta via. Ma in realtà nessuno può dire se la peste è bene o male o darle un scopo ; questo è possibile solo nella finzione letteraria : la peste conduce al lieto fine causando la morte di Don Rodrigo. Nella rivolta di Milano ad esempio Manzoni vede il Demonio, simbolo di ribellione (Lucifero).
- I PROMESSI SPOSI COME ROMANZO BORGHESE - Lettura socio - economica
Concentrandoci sulla figura di Renzo notiamo che le sue avventure non sono necessarie per il risultato finale della storia ma per notare il cambiamento che in lui avviene. All'inizio del romanzo egli è figlio di contadini che gli hanno lasciato un pezzetto di terra la cui rendita è integrata dai proventi del lavoro di tessitore. Alla fine si ritrova nella serenissima Repubblica di S. Marco dove i tessitori venivano pagati bene anche per l'assenza delle tasse e per le molte esenzioni fiscali : questi operai potevano poi quindi diventare piccoli imprenditori tessili. Se fosse rimasto a Milano la sua vita socio-lavorativa non sarebbe assolutamente cambiata. Sotto questo punto di vista bisogna sottolineare che il Manzoni era favorevole al Liberismo Economico e contro il sistema economico feudale contrario alla libertà di scambio e alla libera iniziativa economica. Si può dire quindi che il Manzoni scrive un romanzo in cui Renzo da contadino diventa imprenditore tessile grazie alle sue capacità ed alla sua intraprendenza.
Sul piano economico si vede nelle rivolte di Milano come il Manzoni critichi il prezzo calmierato del pane imposto dagli spagnoli ad un punto troppo basso. Il Manzoni giudica invece il prezzo di mercato di qualsiasi prodotto doloroso ma salutare : doloroso perché tende ad essere più alto ma nel frattempo porta al massimo sfruttamento delle risorse ristabilendo l'equilibrio di mercato tra Domanda e Offerta. I Promessi Sposi sono dunque un romanzo borghese, anti-aristocratico, contro il vecchio sistema economico feudale e a favore del Liberismo.
Ma la ribellione è lecita per abbattere una società nemica del progresso e della libertà ? No, perché è qualcosa di demoniaco ed irrazionale che ricorda la ribellione di Lucifero. Non è un caso che Renzo diventi imprenditore quando è maturato anche interiormente = BildungsRoman : il giovane contadino attraverso errori, peripezie, riflessioni e pericoli diventa uomo imprenditore più saggio e più prudente ("Ho imparato a non cacciarmi nei guai, a farmi i fatti miei, ecc. .......") ; ma soprattutto ha imparato che non si fa giustizia con la rivoluzione perché se c'è qualcosa di pericoloso è l'estremismo rivoluzionario = Renzo abbandona la violenza rivoluzionaria rifiutandola.
Crescita ECONOMICA = imprenditore
Crescita MORALE = uomo più prudente e più saggio
Crescita SOCIALE = rifiuto della rivoluzione
A questo punto Renzo introduce la funzione politico sociale della Chiesa : Manzoni, cattolico, pensa che la Chiesa non deve insegnare solo a conquistare il Paradiso ma che ha anche un compito terreno : educare civicamente le classi lavoratrici che non esercitano il potere politico a rifiutare la violenza rivoluzionaria facendo proprio il rispetto delle istituzioni e delle autorità = si vede il Manzoni cattolico-moderato molto vicino alla Restaurazione.
Renzo alla fine è un imprenditore saggio, timorato di Dio e rispettoso delle autorità, mentre era impetuoso ed impulsivo (matrimonio a sorpresa, fantasia di uccidere Don Rodrigo, rivoluzione di Milano). Renzo nato in una società feudale, aristocratica e oppressiva, da semplice popolano impara a non contare sulla violenza per risolvere le questioni ma nell'aiuto di Dio e nelle proprie capacità lavorative
Sursa:balbruno.altervista.org
luni, 19 ianuarie 2009
LA VITA DI GABRIELE D’ANNUNZIO
Gabriele D’Annunzio
di Stefano Pazienza
1. La vita di Gabriele D’Annunzio
Gabriele D’Annunzio nacque a Pescara nel 1863 da Francesco Paolo e Luisa De Benedictis, essendo stato adottato da una zia materna e dal marito, Antonio D’Annunzio, assunse il cognome del padre adottivo, che trasmise ai figli. Dopo aver frequentato il Ginnasio e il Liceo nel Collegio “Cicognini” di Prato, s’iscrisse alla facoltà di Lettere dell’Università di Roma, ma non giunse mai alla laurea, solo nel 1919 gli fu conferita dalla stessa università la laurea honoris causa in Lettere. Ciò accadde perché allo studio sistematico preferì la vita mondana della capitale, dove visse da gaudente, frequentando i salotti più rinomati, i circoli letterari e le redazioni dei giornali e delle riviste. Con pseudonimi vari (famoso quello di “Duca minimo”) fu collaboratore de “La Tribuna”, del “Fanfulla della Domenica”, del “Capitan Fracassa”, della “Cronaca bizantina”, del “Convito”.
Tuttavia questa intensa partecipazione alla vita mondana non impedì al poeta di dedicarsi con lavoro instancabile a una feconda attività letteraria, frutto di una fedeltà assoluta alla propria arte, che riscatta in parte frivolezza della sua vita in questo periodo. Nel 1883 rapì e poi sposò donna Maria Hardouin, duchessina di Gallese, dalla quale poi si separò passando ad altri amori. Momenti salienti della sua vita furono il viaggio in Grecia con alcuni amici sul panfilo “Fantasia” di Edoardo Scarfoglio, la relazione amorosa con l’attrice Eleonora Duse, il soggiorno in Toscana, a Settignano presso Firenze, nella villa detta “La Capponcina” perché nel ‘600 era appartenuta alla famiglia Capponi, la partecipazione alla vita politica come deputato nel collegio di Ortona a Mare. Egli sedeva in Parlamento sui banchi della Destra, ma al tempo dell’ostruzionismo della Sinistra contro le leggi repressive del Governo Pelloux, passò clamorosamente all’estrema sinistra dicendo che, come uomo d’intelletto, “andava verso la vita”. Alla Capponcina visse per qualche tempo come un signore del Rinascimento, circondato da belle donne, armi, cavalli e servi, conducendo una vita sfarzosa di raffinato gaudente, ma senza pagare i debiti che via via contraeva. Per evitare i fastidi dei creditori lasciò l’Italia e andò in “volontario” esilio in Francia, ad Arcachon, sulla costa dell’Atlantico, presso Bordeaux.
Allo scoppio della Grande Guerra, tornò in Italia e partecipò al conflitto, compiendo numerose azioni di valore, tra cui la “Beffa di Bùccari” e il volo dimostrativo su Vienna. “La Beffa di Bùccari” consistè in un attacco condotto da tre torpediniere italiane, al comando di Costanzo Ciano e Luigi Rizzo, nella notte tra il 10 e l’11 febbraio 1918, contro la flotta austriaca ancorata nella baia di Bùccari (Croazia). Il volo su Vienna fu compiuto il 9 agosto 1918 da una squadriglia di apparecchi, che lanciarono sulla città migliaia di manifestini, in cui si leggeva:.
Finita la guerra, poiché gli alleati non volevano riconoscere l’annessione di Fiume all’Italia, nel 1919, D’Annunzio con i suoi legionari partì da Ronchi e occupò Fiume, reggendola fino al “Natale di sangue” del 1920, quando si ritirò per non spargere sangue fraterno combattendo contro le truppe inviate dal Governo di Roma, presieduto da Francesco Nitti. Dopo l’impresa di Fiume, D’Annunzio, nominato dal re principe di Montenevoso, visse fino alla morte, avvenuta nel 1938 a Gardone Riviera (Brescia), sulle rive del lago di Garda, nella villa Cargnacco, da lui acquistata e chiamata “Il Vittoriale degli Italiani” perché in essa raccolse numerose reliquie della Grande Guerra.
Nei confronti del Fascismo, D’Annunzio tenne un atteggiamento ambiguo, fatto ora di indipendenza sprezzante, ora di benevolo appoggio, usufruendo in ogni caso di sovvenzioni notevoli. Con D’Annunzio – disse un giorno Mussolini al segretario del poeta – qualche volta mi sembra di trattare una donna costosa, profumata e ingioiellata. Un’altra volta Mussolini disse: “D’Annunzio è come un dente guasto: o lo si estirpa o lo si copre d’oro”, e preferì coprirlo d’oro.
Nell’insieme, per quanto riguarda la biografia, D’Annunzio seppe realizzare quel vivere inimitabile, eccezionale, dominato da una continua ricerca di bellezza e di grandezza, che era nel gusto estetizzante del Decadentismo, di una vita cioè costruita come un’opera d’arte. Gli stessi atti di valore in guerra testimoniano non tanto il suo amor di patria e la sua audacia, quanto il gusto dell’avventura, il compiacimento del bel gesto, la ricerca della bella morte come coronamento del vivere inimitabile. Perciò egli potè scrivere di sé: “Non sono e non voglio essere solo un poeta. Tutte le manifestazioni della vita e dell’intelligenza mi attraggono ugualmente”. Questo pensiero non restò soltanto come aspirazione; anzi si può dire, se non sembrasse un paradosso, che l’unica opera d’arte di D’Annunzio perfettamente riuscita, fu la sua stessa vita di esteta decadente.
2. Il Decadentismo dannunziano
D’Annunzio assimilò le tendenze più superficiali e appariscenti del Decadentismo europeo, egli non solo divenne il simbolo di questo movimento, ma seppe creare un proprio stile di vita e di arte che va sotto il nome di “dannunzianesimo”, un fenomeno culturale e di costume talmente diffuso da indurre ad affermare che all’Italia largamente carducciana della seconda metà dell’Ottocento, seguì un’Italia altrettanto largamente dannunziana, nonostante l’accanita polemica degli oppositori e dei denigratori.
Gli aspetti più significativi del decadentismo dannunziano sono:
Ø L’estetismo artistico, la concezione della poesia e dell’arte come creazione di bellezza, in assoluta libertà di motivi e di forme, sorta come reazione alle miserie e alle “volgarità” del Verismo;
Ø L’estetismo pratico, che ha un rapporto di analogia con l’estetismo artistico: anche la vita pratica deve essere realizzata in assoluta libertà, al di fuori e al di sopra di ogni legge e di ogni freno morale;
Ø L’analisi delle sensazioni più rare, sofisticate e raffinate;
Ø Il gusto della parola, scelta più per il valore evocativo e musicale che per il suo significato logico;
Ø Il panismo, ossia la tendenza ad abbandonarsi alla vita dei sensi e dell’istinto, a dissolversi e a immedesimarsi con le forze e gli aspetti della natura, astri, mare, fiumi, alberi; a sentirsi parte del TUTTO, nella circolarità della vita cosmica.
Per dannunzianesimo si intende il complesso di quegli atteggiamenti deteriori di D’Annunzio che influenzarono la vita pratica, letteraria e politica degli Italiani del suo tempo.
Nella vita pratica D’Annunzio suscitò interesse e curiosità in certa aristocrazia e borghesia parassitaria e sfaccendata, e ne influenzò il costume con i suoi atteggiamenti estetizzanti, narcisistici, edonistici, immorali e superomistici.
Nella vita letteraria, con i suoi virtuosismi lessicali e stilistici diventò il modello di tanti poeti del suo tempo.
Nella vita politica, con la sua eloquenza fastosa di interventista e con le imprese eroiche e leggendarie di combattente, galvanizzò, sia pure entro certi limiti, l’Italia in guerra; poi, con il gusto estetizzante dell’avventura e della ribellione all’autorità costituita (al tempo dell’impresa di Fiume) influenzò il Fascismo, al quale il dannunzianesimo fornì gli schemi delle celebrazioni esteriori, dei discorsi reboanti e vuoti, dei messaggi e dei motti (cito, fra i tanti, il famoso Memento audere semper,, parole le cui iniziali fornirono il nome ai MAS, le velocissime torpediniere d’attacco della flotta italiana), l’uso del gagliardetto, la teatralità dei gesti e le pose istrionesche del capo, nonché il saluto col braccio alzato, la cintura col pugnale, il grido di alalà, la camicia nera istoriata di teschi, tutto il funebre armamentario che in seguito doveva caratterizzare il Fascismo.
I rapporti di D’Annunzio con il fascismo non sono ben definiti: se in un primo tempo la sua posizione è contraria all’ideologia di Mussolini, in seguito l’adesione scaturisce da motivi di convenienza, consoni allo stato di spossatezza fisica e psicologica, nonché ad uno stile di vita esclusivo ed estetizzante. Non rifiuta, quindi, gli onori e gli omaggi del regime fascista, che pur non fidandosi a pieno, lo protegge e lo ritiene un “Vate”.
2.1 I romanzi del Superuomo
Il primo romanzo in cui si comincia a delineare la figura Superuomo è il “Trionfo della morte” (1894), dove non viene ancora proposta compiutamente la nuova figura mitica, ma c’è la ricerca ansiosa quanto frustrata di nuove soluzioni. Il romanzo è incentrato sul rapporto contraddittorio e ambiguo di Giorgio Aurispa con l’amante Ippolita Sanzio, ma su questo tema di fondo si innestano e si sovrappongono altri motivi ed argomenti: il ritorno del protagonista alla sua casa natale in Abruzzo è il pretesto per ampie descrizioni del paesaggio e del lavoro delle genti d’Abruzzo.
Travagliato dall’oscura malattia interiore che lo svuota delle energie vitali, Giorgio va alla ricerca di un nuovo senso della vita.
Non lo trova né ritornando alle origini della sua stirpe né nel misticismo religioso.
Il suicidio di Giorgio Aurispa è come il sacrificio rituale che libera D’Annunzio dal peso angoscioso delle problematiche negative sino a quel momento affrontate. Soppresso quel personaggio emblematico, quell’alter ego in cui proietta la parte oscura e malata di sé, lo scrittore si sente pronto ad affrontare un nuovo cammino, a percorrere la strada del superuomo. Per questo vive il rapporto con l’amante come limitazione, come ostacolo: per il suo fascino irresistibile Ippolita Sanzio è sentita come la “nemica”. Solo con la morte Giorgio si libererà da tale condizione: per questo si uccide con Ippolita che stringe a sé, precipitandosi da uno scoglio.
Anticipata nel “Trionfo della morte”, la vera e propria ideologia del superuomo viene tematizzata nell’articolo “La bestia elettiva”, pubblicato sul “Mattino” nel 1892, prima di esplodere nelle “Vergini delle rocce” (1895). In questo romanzo D’Annunzio non vuole più proporre un personaggio debole, tormentato, incerto, ma un eroe forte e sicuro. Claudio Cantelmo che va senza esitazioni alla sua meta. Il romanzo, che è stato definito “il manifesto politico del Superuomo” (Salinari), contiene l’esposizione più compiuta delle nuove teorie aristocratiche, reazionarie ed imperialistiche di D’Annunzio.
Superuomini saranno anche i due successivi protagonisti, Stelio Effrena (“Il Fuoco”) e Paolo Tarsis (“Forse che sì forse che no”): il primo in senso eminentemente artistico ( il Salinari propone il romanzo come “manifesto artistico” del superuomo), il secondo in direzione modernistico - tecnologica (Paolo è uno sportman, automobilista, pioniere dell’aviazione).
Nonostante le loro velleità artistiche ed eroiche, i protagonisti dannunziani restano sempre deboli e sconfitti, incapaci di tradurre le loro aspirazioni in azione. La decadenza, il disfacimento, la morte esercitano sempre su di essi, che dovrebbero essere gli eroi della vita e della forza, un’irresistibile attrazione.
Dai personaggi dannunziani protagonisti di tali opere emerge chiaramente che il superuomo è il dominatore di un mondo al di là del bene e del male, che l’istinto è la sola verità, che la morale è una menzogna, che il dominio è l’unica legge, che avvicinandosi alla belva l’uomo supera l’uomo, si accosta all’eroe, e come dunque sia necessario oltrepassare l’umano, cioè andare oltre il cristianesimo che afferma la coscienza del male. Bisogna liberarsi insomma di quell’etica che vieta la lussuria, porre l’arbitrio di poter osare tutto ciò che risuona come piacere. Idee queste che ritroviamo espresse nelle opere del D’Annunzio attraverso lunghe dissertazioni dei suoi personaggi che celano una tremenda aridità interiore, diremo del cuore. Fu questa, come è stato osservato, una via d’uscita del poeta che credette di poter fare della morale eroica il proprio mondo come, per esempio, la mitologia greca fu il mondo di Omero e al dottrina cattolica costituì il mondo di Dante.
La guerra fece del D’Annunzio un eroe, per quanto non si possa negare, d’accordo con gli storici d’oggi, che egli rimase sempre un “avventuriero privilegiato”, estraneo agli orrori putridi e comuni della trincea, ma pronto, a sfidare la morte con la logica singolare del giocatore d’azzardo, come risulta chiarissimo dai suoi taccuini di combattente, sia che confessi che “la vita non ha più pregio poiché non può rischiarla nel più temerario dei giochi” sia che si sorprenda a notare come “tante immagini di voluttà accompagnino uno stato eroico” o lodi “l’amore del destino” in una “carne che domani può essere un pallido sacco d’acqua amara”.
Le sue azioni da grande soldato sono altrettante espressioni di superomismo.
D’Annunzio ricorse al Superuomo per formarsi un senso della vita che sentiva mancargli. Egli non si contentava, come uomo, di essere un sensuale o meglio solo una voce destinata ad esprimere particolarmente la vita del mondo fisico, aveva bisogno di una più alta, più comprensiva, più larga concezione del mondo. Il Superuomo dannunziano sa che il mondo è il suo giardino, di cui egli può cogliere tutti i frutti; i frutti sono proprio fatti apposta per lui, disposti per la soddisfazione del suo infinito desiderio.
La scoperta di Nietzsche costituisce per D’Annunzio la conclusione quasi necessaria di tutta la sua avventura estetica. Si potrebbe persino dire che il suo “niccianesimo” preesiste, come un fatto istintivo, alla conoscenza del filosofo e delle sue opere. Come ammette del resto lo stesso D’Annunzio, le concordanze con il pensiero “nicciano” derivano “dal fondo della sua natura” e si trovano già in germe nel libro della sua adolescenza. L’esperienza del superuomo dà al D’Annunzio la rivelazione definitiva di sé stesso; infatti a differenza di tanti altri scrittori, egli non pare avere una storia, un lento graduale evolversi verso atteggiamenti spirituali ed artistici sempre più maturi a complessi, pare invece che egli giunga d’un tratto, giovanissimo, alla scoperta di sé, di quel motivo che resterà sempre centrale di tutta la sua opera e della sua vita d’uomo: la figura dell’esteta che verrà inglobata e non sopraffatta da quella del superuomo. Nella prefazione del suo romanzo “ Il ritratto di Dorian Gray”, pubblicato nel 1890, affermava: “Non esistono libri morali o immorali. I libri sono scritti bene o scritti male: questo è tutto”. Ebbene, per Gabriele D’Annunzio la vita è come un libro, né morale né immorale, scritto bene o scritto male. Il suo ritiene di averlo scritto bene. E’ sostanzialmente questo il suo estetismo.
2.2 L’estetismo e il tema del superuomo
L’estetismo è la corrente letteraria e filosofica che esprime l’atteggiamento tipico dell’artista decadente, che è un soggetto che vive una crisi, un’estraneità al mondo che lo circonda e ai suoi valori. Egli prova un odio ed un disgusto per i valori, li considera mediocri e rispetto ai quali si sente superiore. Il poeta fugge dalla realtà verso un mondo di bellezza raffinata, insolita, preziosa. Tutto questo non solo nell’arte, ma anche nella vita. La vita stessa, cioè, è un’opera d’arte da costruire con raffinatezza e ricercatezza. L’esteta ha il culto del bello fine a se stesso, ritiene i valori estetici primari e riduce in subordine tutti gli altri Ü “un’azione non dev’essere giusta, ma bella!”. L’eroe decadente si considera eccezionale, speciale, disprezza l’uomo comune e la massa mediocre, costruisce la sua vita come un’opera d’arte attraverso l’artificio, sprezzando la spontaneità. Egli giunge ad un fallimento finale inevitabile.
Il superomismo è la dottrina di Nietzsche secondo la quale il superuomo è il protagonista della storia. Egli è colui che realizzerà un nuovo esemplare di umanità al di là della morale comune, della mediocrità borghese, del bene e del male. Il superuomo è l’espressione della “volontà di potenza”, dell’esaltazione della forza, dello spirito agonistico: non presuppone nessuna pietà per i deboli, i quali sono inevitabilmente destinati a soccombere.
Le doti del superuomo sono: l’energia, la forza, la volontà di dominio, lo sprezzo del pericolo, la volontà di affermazione, il velleitarismo (=la sproporzione fra gli obiettivi e le forze per raggiungerli, fra la volontà e l’esito finale).
di Stefano Pazienza
1. La vita di Gabriele D’Annunzio
Gabriele D’Annunzio nacque a Pescara nel 1863 da Francesco Paolo e Luisa De Benedictis, essendo stato adottato da una zia materna e dal marito, Antonio D’Annunzio, assunse il cognome del padre adottivo, che trasmise ai figli. Dopo aver frequentato il Ginnasio e il Liceo nel Collegio “Cicognini” di Prato, s’iscrisse alla facoltà di Lettere dell’Università di Roma, ma non giunse mai alla laurea, solo nel 1919 gli fu conferita dalla stessa università la laurea honoris causa in Lettere. Ciò accadde perché allo studio sistematico preferì la vita mondana della capitale, dove visse da gaudente, frequentando i salotti più rinomati, i circoli letterari e le redazioni dei giornali e delle riviste. Con pseudonimi vari (famoso quello di “Duca minimo”) fu collaboratore de “La Tribuna”, del “Fanfulla della Domenica”, del “Capitan Fracassa”, della “Cronaca bizantina”, del “Convito”.
Tuttavia questa intensa partecipazione alla vita mondana non impedì al poeta di dedicarsi con lavoro instancabile a una feconda attività letteraria, frutto di una fedeltà assoluta alla propria arte, che riscatta in parte frivolezza della sua vita in questo periodo. Nel 1883 rapì e poi sposò donna Maria Hardouin, duchessina di Gallese, dalla quale poi si separò passando ad altri amori. Momenti salienti della sua vita furono il viaggio in Grecia con alcuni amici sul panfilo “Fantasia” di Edoardo Scarfoglio, la relazione amorosa con l’attrice Eleonora Duse, il soggiorno in Toscana, a Settignano presso Firenze, nella villa detta “La Capponcina” perché nel ‘600 era appartenuta alla famiglia Capponi, la partecipazione alla vita politica come deputato nel collegio di Ortona a Mare. Egli sedeva in Parlamento sui banchi della Destra, ma al tempo dell’ostruzionismo della Sinistra contro le leggi repressive del Governo Pelloux, passò clamorosamente all’estrema sinistra dicendo che, come uomo d’intelletto, “andava verso la vita”. Alla Capponcina visse per qualche tempo come un signore del Rinascimento, circondato da belle donne, armi, cavalli e servi, conducendo una vita sfarzosa di raffinato gaudente, ma senza pagare i debiti che via via contraeva. Per evitare i fastidi dei creditori lasciò l’Italia e andò in “volontario” esilio in Francia, ad Arcachon, sulla costa dell’Atlantico, presso Bordeaux.
Allo scoppio della Grande Guerra, tornò in Italia e partecipò al conflitto, compiendo numerose azioni di valore, tra cui la “Beffa di Bùccari” e il volo dimostrativo su Vienna. “La Beffa di Bùccari” consistè in un attacco condotto da tre torpediniere italiane, al comando di Costanzo Ciano e Luigi Rizzo, nella notte tra il 10 e l’11 febbraio 1918, contro la flotta austriaca ancorata nella baia di Bùccari (Croazia). Il volo su Vienna fu compiuto il 9 agosto 1918 da una squadriglia di apparecchi, che lanciarono sulla città migliaia di manifestini, in cui si leggeva:
Finita la guerra, poiché gli alleati non volevano riconoscere l’annessione di Fiume all’Italia, nel 1919, D’Annunzio con i suoi legionari partì da Ronchi e occupò Fiume, reggendola fino al “Natale di sangue” del 1920, quando si ritirò per non spargere sangue fraterno combattendo contro le truppe inviate dal Governo di Roma, presieduto da Francesco Nitti. Dopo l’impresa di Fiume, D’Annunzio, nominato dal re principe di Montenevoso, visse fino alla morte, avvenuta nel 1938 a Gardone Riviera (Brescia), sulle rive del lago di Garda, nella villa Cargnacco, da lui acquistata e chiamata “Il Vittoriale degli Italiani” perché in essa raccolse numerose reliquie della Grande Guerra.
Nei confronti del Fascismo, D’Annunzio tenne un atteggiamento ambiguo, fatto ora di indipendenza sprezzante, ora di benevolo appoggio, usufruendo in ogni caso di sovvenzioni notevoli. Con D’Annunzio – disse un giorno Mussolini al segretario del poeta – qualche volta mi sembra di trattare una donna costosa, profumata e ingioiellata. Un’altra volta Mussolini disse: “D’Annunzio è come un dente guasto: o lo si estirpa o lo si copre d’oro”, e preferì coprirlo d’oro.
Nell’insieme, per quanto riguarda la biografia, D’Annunzio seppe realizzare quel vivere inimitabile, eccezionale, dominato da una continua ricerca di bellezza e di grandezza, che era nel gusto estetizzante del Decadentismo, di una vita cioè costruita come un’opera d’arte. Gli stessi atti di valore in guerra testimoniano non tanto il suo amor di patria e la sua audacia, quanto il gusto dell’avventura, il compiacimento del bel gesto, la ricerca della bella morte come coronamento del vivere inimitabile. Perciò egli potè scrivere di sé: “Non sono e non voglio essere solo un poeta. Tutte le manifestazioni della vita e dell’intelligenza mi attraggono ugualmente”. Questo pensiero non restò soltanto come aspirazione; anzi si può dire, se non sembrasse un paradosso, che l’unica opera d’arte di D’Annunzio perfettamente riuscita, fu la sua stessa vita di esteta decadente.
2. Il Decadentismo dannunziano
D’Annunzio assimilò le tendenze più superficiali e appariscenti del Decadentismo europeo, egli non solo divenne il simbolo di questo movimento, ma seppe creare un proprio stile di vita e di arte che va sotto il nome di “dannunzianesimo”, un fenomeno culturale e di costume talmente diffuso da indurre ad affermare che all’Italia largamente carducciana della seconda metà dell’Ottocento, seguì un’Italia altrettanto largamente dannunziana, nonostante l’accanita polemica degli oppositori e dei denigratori.
Gli aspetti più significativi del decadentismo dannunziano sono:
Ø L’estetismo artistico, la concezione della poesia e dell’arte come creazione di bellezza, in assoluta libertà di motivi e di forme, sorta come reazione alle miserie e alle “volgarità” del Verismo;
Ø L’estetismo pratico, che ha un rapporto di analogia con l’estetismo artistico: anche la vita pratica deve essere realizzata in assoluta libertà, al di fuori e al di sopra di ogni legge e di ogni freno morale;
Ø L’analisi delle sensazioni più rare, sofisticate e raffinate;
Ø Il gusto della parola, scelta più per il valore evocativo e musicale che per il suo significato logico;
Ø Il panismo, ossia la tendenza ad abbandonarsi alla vita dei sensi e dell’istinto, a dissolversi e a immedesimarsi con le forze e gli aspetti della natura, astri, mare, fiumi, alberi; a sentirsi parte del TUTTO, nella circolarità della vita cosmica.
Per dannunzianesimo si intende il complesso di quegli atteggiamenti deteriori di D’Annunzio che influenzarono la vita pratica, letteraria e politica degli Italiani del suo tempo.
Nella vita pratica D’Annunzio suscitò interesse e curiosità in certa aristocrazia e borghesia parassitaria e sfaccendata, e ne influenzò il costume con i suoi atteggiamenti estetizzanti, narcisistici, edonistici, immorali e superomistici.
Nella vita letteraria, con i suoi virtuosismi lessicali e stilistici diventò il modello di tanti poeti del suo tempo.
Nella vita politica, con la sua eloquenza fastosa di interventista e con le imprese eroiche e leggendarie di combattente, galvanizzò, sia pure entro certi limiti, l’Italia in guerra; poi, con il gusto estetizzante dell’avventura e della ribellione all’autorità costituita (al tempo dell’impresa di Fiume) influenzò il Fascismo, al quale il dannunzianesimo fornì gli schemi delle celebrazioni esteriori, dei discorsi reboanti e vuoti, dei messaggi e dei motti (cito, fra i tanti, il famoso Memento audere semper,
I rapporti di D’Annunzio con il fascismo non sono ben definiti: se in un primo tempo la sua posizione è contraria all’ideologia di Mussolini, in seguito l’adesione scaturisce da motivi di convenienza, consoni allo stato di spossatezza fisica e psicologica, nonché ad uno stile di vita esclusivo ed estetizzante. Non rifiuta, quindi, gli onori e gli omaggi del regime fascista, che pur non fidandosi a pieno, lo protegge e lo ritiene un “Vate”.
2.1 I romanzi del Superuomo
Il primo romanzo in cui si comincia a delineare la figura Superuomo è il “Trionfo della morte” (1894), dove non viene ancora proposta compiutamente la nuova figura mitica, ma c’è la ricerca ansiosa quanto frustrata di nuove soluzioni. Il romanzo è incentrato sul rapporto contraddittorio e ambiguo di Giorgio Aurispa con l’amante Ippolita Sanzio, ma su questo tema di fondo si innestano e si sovrappongono altri motivi ed argomenti: il ritorno del protagonista alla sua casa natale in Abruzzo è il pretesto per ampie descrizioni del paesaggio e del lavoro delle genti d’Abruzzo.
Travagliato dall’oscura malattia interiore che lo svuota delle energie vitali, Giorgio va alla ricerca di un nuovo senso della vita.
Non lo trova né ritornando alle origini della sua stirpe né nel misticismo religioso.
Il suicidio di Giorgio Aurispa è come il sacrificio rituale che libera D’Annunzio dal peso angoscioso delle problematiche negative sino a quel momento affrontate. Soppresso quel personaggio emblematico, quell’alter ego in cui proietta la parte oscura e malata di sé, lo scrittore si sente pronto ad affrontare un nuovo cammino, a percorrere la strada del superuomo. Per questo vive il rapporto con l’amante come limitazione, come ostacolo: per il suo fascino irresistibile Ippolita Sanzio è sentita come la “nemica”. Solo con la morte Giorgio si libererà da tale condizione: per questo si uccide con Ippolita che stringe a sé, precipitandosi da uno scoglio.
Anticipata nel “Trionfo della morte”, la vera e propria ideologia del superuomo viene tematizzata nell’articolo “La bestia elettiva”, pubblicato sul “Mattino” nel 1892, prima di esplodere nelle “Vergini delle rocce” (1895). In questo romanzo D’Annunzio non vuole più proporre un personaggio debole, tormentato, incerto, ma un eroe forte e sicuro. Claudio Cantelmo che va senza esitazioni alla sua meta. Il romanzo, che è stato definito “il manifesto politico del Superuomo” (Salinari), contiene l’esposizione più compiuta delle nuove teorie aristocratiche, reazionarie ed imperialistiche di D’Annunzio.
Superuomini saranno anche i due successivi protagonisti, Stelio Effrena (“Il Fuoco”) e Paolo Tarsis (“Forse che sì forse che no”): il primo in senso eminentemente artistico ( il Salinari propone il romanzo come “manifesto artistico” del superuomo), il secondo in direzione modernistico - tecnologica (Paolo è uno sportman, automobilista, pioniere dell’aviazione).
Nonostante le loro velleità artistiche ed eroiche, i protagonisti dannunziani restano sempre deboli e sconfitti, incapaci di tradurre le loro aspirazioni in azione. La decadenza, il disfacimento, la morte esercitano sempre su di essi, che dovrebbero essere gli eroi della vita e della forza, un’irresistibile attrazione.
Dai personaggi dannunziani protagonisti di tali opere emerge chiaramente che il superuomo è il dominatore di un mondo al di là del bene e del male, che l’istinto è la sola verità, che la morale è una menzogna, che il dominio è l’unica legge, che avvicinandosi alla belva l’uomo supera l’uomo, si accosta all’eroe, e come dunque sia necessario oltrepassare l’umano, cioè andare oltre il cristianesimo che afferma la coscienza del male. Bisogna liberarsi insomma di quell’etica che vieta la lussuria, porre l’arbitrio di poter osare tutto ciò che risuona come piacere. Idee queste che ritroviamo espresse nelle opere del D’Annunzio attraverso lunghe dissertazioni dei suoi personaggi che celano una tremenda aridità interiore, diremo del cuore. Fu questa, come è stato osservato, una via d’uscita del poeta che credette di poter fare della morale eroica il proprio mondo come, per esempio, la mitologia greca fu il mondo di Omero e al dottrina cattolica costituì il mondo di Dante.
La guerra fece del D’Annunzio un eroe, per quanto non si possa negare, d’accordo con gli storici d’oggi, che egli rimase sempre un “avventuriero privilegiato”, estraneo agli orrori putridi e comuni della trincea, ma pronto, a sfidare la morte con la logica singolare del giocatore d’azzardo, come risulta chiarissimo dai suoi taccuini di combattente, sia che confessi che “la vita non ha più pregio poiché non può rischiarla nel più temerario dei giochi” sia che si sorprenda a notare come “tante immagini di voluttà accompagnino uno stato eroico” o lodi “l’amore del destino” in una “carne che domani può essere un pallido sacco d’acqua amara”.
Le sue azioni da grande soldato sono altrettante espressioni di superomismo.
D’Annunzio ricorse al Superuomo per formarsi un senso della vita che sentiva mancargli. Egli non si contentava, come uomo, di essere un sensuale o meglio solo una voce destinata ad esprimere particolarmente la vita del mondo fisico, aveva bisogno di una più alta, più comprensiva, più larga concezione del mondo. Il Superuomo dannunziano sa che il mondo è il suo giardino, di cui egli può cogliere tutti i frutti; i frutti sono proprio fatti apposta per lui, disposti per la soddisfazione del suo infinito desiderio.
La scoperta di Nietzsche costituisce per D’Annunzio la conclusione quasi necessaria di tutta la sua avventura estetica. Si potrebbe persino dire che il suo “niccianesimo” preesiste, come un fatto istintivo, alla conoscenza del filosofo e delle sue opere. Come ammette del resto lo stesso D’Annunzio, le concordanze con il pensiero “nicciano” derivano “dal fondo della sua natura” e si trovano già in germe nel libro della sua adolescenza. L’esperienza del superuomo dà al D’Annunzio la rivelazione definitiva di sé stesso; infatti a differenza di tanti altri scrittori, egli non pare avere una storia, un lento graduale evolversi verso atteggiamenti spirituali ed artistici sempre più maturi a complessi, pare invece che egli giunga d’un tratto, giovanissimo, alla scoperta di sé, di quel motivo che resterà sempre centrale di tutta la sua opera e della sua vita d’uomo: la figura dell’esteta che verrà inglobata e non sopraffatta da quella del superuomo. Nella prefazione del suo romanzo “ Il ritratto di Dorian Gray”, pubblicato nel 1890, affermava: “Non esistono libri morali o immorali. I libri sono scritti bene o scritti male: questo è tutto”. Ebbene, per Gabriele D’Annunzio la vita è come un libro, né morale né immorale, scritto bene o scritto male. Il suo ritiene di averlo scritto bene. E’ sostanzialmente questo il suo estetismo.
2.2 L’estetismo e il tema del superuomo
L’estetismo è la corrente letteraria e filosofica che esprime l’atteggiamento tipico dell’artista decadente, che è un soggetto che vive una crisi, un’estraneità al mondo che lo circonda e ai suoi valori. Egli prova un odio ed un disgusto per i valori, li considera mediocri e rispetto ai quali si sente superiore. Il poeta fugge dalla realtà verso un mondo di bellezza raffinata, insolita, preziosa. Tutto questo non solo nell’arte, ma anche nella vita. La vita stessa, cioè, è un’opera d’arte da costruire con raffinatezza e ricercatezza. L’esteta ha il culto del bello fine a se stesso, ritiene i valori estetici primari e riduce in subordine tutti gli altri Ü “un’azione non dev’essere giusta, ma bella!”. L’eroe decadente si considera eccezionale, speciale, disprezza l’uomo comune e la massa mediocre, costruisce la sua vita come un’opera d’arte attraverso l’artificio, sprezzando la spontaneità. Egli giunge ad un fallimento finale inevitabile.
Il superomismo è la dottrina di Nietzsche secondo la quale il superuomo è il protagonista della storia. Egli è colui che realizzerà un nuovo esemplare di umanità al di là della morale comune, della mediocrità borghese, del bene e del male. Il superuomo è l’espressione della “volontà di potenza”, dell’esaltazione della forza, dello spirito agonistico: non presuppone nessuna pietà per i deboli, i quali sono inevitabilmente destinati a soccombere.
Le doti del superuomo sono: l’energia, la forza, la volontà di dominio, lo sprezzo del pericolo, la volontà di affermazione, il velleitarismo (=la sproporzione fra gli obiettivi e le forze per raggiungerli, fra la volontà e l’esito finale).
GIACOMO LEOPARDI-BIOGRAFIA
GIACOMO LEOPARDI-BIOGRAFIA
Giacomo Leopardi nacque nel 1798 a Recanati,piccolo paese delle marche,che allora apparteneva allo stato pontificio.Suo padre, il conte Monardo,era un uomo di cultura,ma molto conservatore,sua madre la marchesa Adelaide Antici era una donna dal carattere rigidoe dedicò le sue energie a ricostruire il patrimonio familiare al quanto dissestato.
Il piccolo Giacomo iniziò gli studi sotto la guida di due sacerdoti,ma ben presto,a soli 11 anni, proseguì da solo gli studi avvalendosi della ricchissima biblioteca paterna.
Ben presto matura nel giovane Leopardi una nuova sensibilità che lo porta a lasciare gli studi filologici e a convertirsi alla letteratura.
Intanto partecipa alla polemica tra i classicisti e i romantici. Conosce in seguito Pietro Giordani che rappresenta per il giovane poeta una guida preziosa sia sul piano intelletuale che umano.
Man mano che passano gli anni il poeta sente l'insofferenza per l'atmosfera chiusa e arretrata del suo ambiente familiare e tenta la fuga dalla casa paterna. Il falimento di tale fuga,costituì un motivo di profonda infelicità umana.
Il poeta nel momento in cui avverte la difficoltà e l'infelicità personale matura una forma di pessimismo il quale viene definito pessimismo storico. Egli sostiene che la natura ha creato gli uomini felici,mentre col progredire della civiltà la ragione li ha resi deboli e infelici,infatti,la ragione distrugge i sogni e le illusioni.
L'uomo man mano che diventa adulto,aumenta la sua capacità di ragionare,distaccandosi dalla condizione naturale della sua infanzia.
Nel novembre del 1822 Leopardi finalmente abbandonò Recanati e andò a Roma dallo zio Carlo Antici. Ma il soggiorno romano si rivelò una vera delusione. Torna a Recanati dove scrive "LE OPERETTE MORALI".
Nel 1825 il poeta si trasferisce a Milano; nel '27 andò a Firenze dove conobbe Alessandro Manzoni. Nel 1828 il poeta torna a Recanati e nel '30 conosce Antonio Ranieri,nobile napoletano con cui strinse un'amicizia che durò sino alla morte. Vive ospite dall'amico Ranieri tra Napoli e Torre del Greco,alle falde del Vesuvio e qui morì nel1837 all'età di 39 anni.
Leopardi fu essenzialmente un lirico incline a esplorare se stesso e a sviluppare una sua storia interiore e quindi non fece parlare molto personaggi diversi da lui. E questo perché in quegli anni Leopardi e altri lirici avevano intrapreso una strada che portava a una concezione nuova dell'arte, non più legata ad un contesto generale e universalizzato, espressione di comportamento sociale, ma come libero sfogo degli stati d'animo individuali, appunto nella loro individualità irripetibile. Tale concezione nuova era legata agli aspetti di fondo dell'età: il venire meno dell'aristocrazia; il prevalere dei modi borghesi di concepire arte e vita; la necessità di esprimere i diritti dell'individuo contro i fatti che potessero comprimerlo; il ripiegarsi su se stesso dell'uomo, tutto preso da "una morsa di cose più grandi di lui". Così come il romanzo si affermava come genere atto a cantare l'epopea morale e sociale del mondo borghese, la lirica celebrava i diritti dell'individuo, la sua vita interiore, la ribellione contro una società che non gli permetteva sempre di espandersi liberamente.
Quindi la biografia è molto importante per un lirico ed in Leopardi essa si fonde con l'arte. La vita del Leopardi va divisa in momenti diversi, in ognuno dei quali è presente una fase dello sviluppo intellettuale e sentimentale del poeta stesso e un momento della sua opera. Anche nei luoghi, biografia e lirica si fondono, specie per quanto riguarda Recanati ("il natio borgo selvaggio"), dove Leopardi visse la maggior parte della sua vita. Ma i luoghi in cui visse furono normalissimi, quindi fu la sua immensa potenza lirica a trasfigurarli in miti poetici altissimi, tanto che sembra quasi che senza quei luoghi sia impossibile comprendere il Leopardi.
Rapporto vita-opera
L'ambiente familiare giovanile fu affettivamente povero, la madre era severa e presa totalmente da problemi pecuniari. La cultura di Giacomo era vastissima, lo studio "matto e disperatissimo", è interessato da ogni cosa.
Ha una prima fase, cosiddetta di erudizione, in cui compone due opere importanti: Storia dell'astronomia, che riflette il suo amore per le stelle, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (un'opera dall'ispirazione illuminista, contro l'ignoranza e le superstizioni del popolo).
Compie traduzioni importanti e studi filologici.
Nel 1819 vive una profonda crisi e si avvicina alla poesia. Conosce un purista, Pietro Giordani, che lo spinge ad uscire dall'ambiente chiuso in cui vive. Conosce l'amore, platonico e idealizzato, per una cugina. Passa dalla poesia dell'immaginazione a quella del sentimento.
Nella polemica fra classici e romantici, si schiera coi classici, considerando il romanticismo gusto eccessivo dell'orrido.
Compone due canzoni, All'Italia e Sopra il monumento di Dante, che esprimono un amore sentimentale verso la patria, letterario più che politicamente attivo. influenzato da Petrarca, esalta il passato e disprezza il presente.
La ragione, mettendo a nudo il reale, scopre il lato doloroso di esso (in Alla primavera, il credere alle favole diventa motivo di felicità).
Durante la crisi matura la sua concezione pessimistica della vita, influenzata dalle esperienze personali e compie il distacco dalla fede religiosa.
Intraprende un deludente viaggio a Roma, facendogli sperimentare il penoso scollamento fra sogno e realtà, che continuerà anche in altri tentativi di "fuga", seguiti da ritorni a Recanati.
Conobbe difficoltà economiche e altri amori, che sfociarono in una demitizzazione della donna (Aspasia).
Fece una sola raccolta di Canti; essi vennero però divisi per contenuto e forma:
1) dieci canzoni civili (Angelo Mai, Primavera, All'Italia);
2) primi idilli (Infinito, Alla luna);
3) il Passero solitario rappresenta il passaggio dai primi idilli ai grandi idilli;
4) 1823-24: le Operette morali e poi il ritorno alla poesia con altri canti (grandi idilli, per distinguerli dai primi: A Silvia ecc.)
Canzoni
Ispirate da fatti occasionali o da esperienze familiari, vi troviamo due tendenze:
a) civile;
b) sentimentale.
Leopardi è alla ricerca di una sua personale forma espressiva. Dopo l'incontro col Giordani, Leopardi sembra prendere parte alla vita politica presente, anche se mai, oltre a non partecipare direttamente alla vita politica, dimostra un ideale di patria. Insiste molto, specie in Angelo Mai, sul contrasto fra il passato, esaltato e il presente, condannato (Angelo Mai con le sue scoperte filologiche fa rivivere i tempi gloriosi del Rinascimento, le opere di Dante e Petrarca, Ariosto, Tasso e Alfieri).
Arriva all'amara conclusione che è inutile la lotta.
Zibaldone.
Fu composto fra il luglio del 1817 e il dicembre del 1832. Su questo scartafaccio lasciato inedito sta tutto il lavorio di sistemazione del pensiero del Leopardi. Contiene un grandissimo numero di pensieri, appunti, ricordi, osservazioni, note, conversazioni e discussioni. Si tratta di filosofia, letteratura, politica, uomo, nazioni, universo. Sono considerazioni poi liberissime e senza preoccupazioni, come di tale che scriveva di giorno in giorno per se stesso e non per gli altri.
Libro moderno, ancor oggi la sua lettura è fonte inesauribile di stimoli e riflessioni.
Idilli
Vennero pubblicati nel 1826. Si tratta di sei liriche: L'Infinito; La sera del dì di festa; Alla luna; Il sogno; Lo spavento notturno; La vita solitaria.
Il titolo, desunto da Mosco, era adoperato nel senso greco di quadretto. Cadono, negli Idilli, le costruzioni artificiose della canzone, con le sue strofe tutte uguali e le sue rime ripetute e subentrano gli endecasillabi sciolti. Cadono i temi occasionali, desunti dalla storia o da vicende esterne e subentrano temi o occasioni interiori, scaturiti da situazioni quotidiane. E scompaiono i ricordi e i richiami di cultura, l'erudizione accumulata con tanta fatica e resta solo il succo di quel tanto sapere, la lezione della vanità delle cose.
L'infinito. E' il primo di quei componimenti che il poeta pubblicò nel 1825 col nome di Idilli. L'idillio leopardiano si distingue profondamente da quello della tradizione; non è più un quadretto bucolico, un componimento piacevole di ispirazione pastorale, ma l'espressione poetica di un'avventura interiore, di un moto dello spirito, nato dalla contemplazione nuova ed attonita dei un aspetto della Natura o della rinnovata capacità di sentire e vedere.
Che l'idillio leopardiano sia trasferito tutto nel soggetto e la Natura vi compaia solo come stimolo e occasione, rivela meglio di ogni altro L'infinito.
Gli elementi esteriori si riducono ad un colle, ad una siepe che limita l'orizzonte, ad uno stormire di fronde. Ma da questi motivi, quale contemplazione stupita dell'infinito, quali sillabe eterne.
Sulla cima di un colle una siepe impedisce allo sguardo la vista di una grande parte dell'orizzonte. Ma quello che è ostacolo alla vista degli occhi diviene stimolo alla visione interiore, all'immaginazione del poeta. E sorgono dentro di lui gli interminati spazi del cielo e i sovrumani silenzi e la profondissima quiete del vuoto e quasi il cuore del poeta si spaura e ritrae da quel nulla. E da quella voce il poeta è ricondotto alle cose finite e al confronto di esse con l'eterno, al pensiero delle morte stagioni e della stagione presente, così viva, così reale, con i suoi rumori intorno al poeta, eppure destinata a disperdersi, a svanire, inafferrabile anzi e sparente nell'atto stesso che trascorre.
La ricerca logica dell'infinito si conclude nel Leopardi con uno "scacco". Se il breve canto termina con una punta di dolcezza, ciò avviene solo perché il Leopardi rinuncia all'indagine e dove la ragione fallisce, il recupero avviene tramite l'abbandono a uno stato sentimentale, o meglio di natura mistico-religiosa.
La sera del dì di festa. Il primo motivo poetico dell'idillio è il vagheggiamento di una quieta notte lunare. Emerge chiaramente in tutto l'idillio il pessimismo di Leopardi.
Il secondo motivo poetico che si può rilevare è quello del canto notturno che si disperde nella campagna e muore poco a poco, allontanandosi.. Un idillio, anche questo, che reca con sè il senso della fugacità, del trapassare e spegnersi di ogni vaghezza. Un idillio cui si accompagna la rimembranza, cioè la capacità di rinvenire nelle contemplazioni attuali gli stupori, gli incanti e le malinconie degli anni passati.
Alla luna. L'idillio è tutt'uno, in ogni sillaba, con la rimembranza, cioè con il ricordo delle contemplazioni passate. Il poeta contempla la luna dalla cima del monte Tabor e ricorda che allo stesso modo saliva a contemplarla l'anno precedente e che il volto dell'astro appariva nebuloso e tremulo attraverso le sue lacrime; nè minori o diverse sono oggi le sue pene. Eppure come dolce e gradito è negli anni giovanili il ricordo di ogni cosa passata ancora che triste e che l'affanno continui.
Operette morali.
Nel 1824, in parte rielaborando pensieri già annotati nello Zibaldone, in parte sviluppando idee precedenti, in parte inventando originalmente, Leopardi scrisse con foga crescente alcune prose fra satiriche, fantastiche e filosofiche, prose che uscirono in volume nel giugno del 1927 col titolo di Operette morali.
Negli anni successivi al 1824, ner aggiunse alle venti già scritte altre cinque operette, scritte in epoche diverse.
Dialogo della Natura e di un Islandese. Vi compare per la prima volta, condotto sino all'estremo delle sue conclusioni, il "pessimismo cosmico" di Leopardi.
La Natura non è più considerata la "madre benigna" degli esseri viventi; i colpevoli non sono più gli uomini che hanno deviato volontariamente dalle leggi naturali, ma la Natura sempre e dovunque indifferente se non ostile ad ognuno dei suoi figli, incapace di procurar loro quella felicità che è nel fine di ogni vivente.
Cantico del gallo silvestre. Leopardi si ricollega ad alcune tracce di una sperduta leggenda di derivazione biblica. Immagine l'esistenza di un immenso gallo selvatico, che risiede fra il cielo e la terra e finge di aver ritrovato una cartapecora antica, in cui sono riprodotte le parole che il gallo rivolge agli uomini ad ogni rinnovarsi del giorno. A ogni alba il gallo spinge gli uomini a svegliarsi e a riprendere il peso doloroso della vita e li assicura che verrà un giorno in cui potranno giacere immobili per sempre nella quiete del sonno; l'universo intero precipiterà infine nel buoi, prima che nessuno abbia potuto comprendere le ragioni della sua esistenza, l'arcano mirabile e spaventoso della vita.
L'invenzione del gallo silvestre testimonia di quel gusto del bizzarro, del peregrino, dell'umoresco che informa le Operette; ma la materia è senza dubbio fra le più dolenti e severe del Leopardi.
Dialogo di Tristano e di un Amico. Il poeta si difende dall'accusa di aver formulato le sue teorie pessimistiche in conseguenza dei mali fisici. Sul finire del dialogo, il poeta si distacca da ogni accento polemico ed esprime l'infelicità del proprio animo e il proprio desiderio di morte.
Dialogo di Plotino e di Porfirio. Il poeta finge di riprodurre i discorsi che il filosofo Plotino tenne al discepolo Porfirio per distoglierlo dall'idea del suicidio; scrive alcune fra le righe più malinconiche e dolci del suo libro.
Il suicidio può anche apparire conforme al pessimismo leopardiano, giustificato, un gesto di natura eroica, di ribellione o di sfida; tuttavia contrasta con le voci più intime e segrete dell'animo, con quel senso profondo che ci lega ai nostri compagni, alla nostra sorte di uomini. Plotino non confuta le osservazioni teoriche del discepolo, ma parla mosso da quel senso dell'animo che vuole la collegazione fraterna, il rispetto e la pietà dei propri simili.
Grandi Idilli
Comprendono: A Silvia, Le ricordanze, Il sabato del villaggio, La quiete dopo la tempesta, Il passero solitario, Canto di un pastore errante dell'Asia.
Idillici sono i richiami costanti alla natura e a Recanati, il tono di intimità raccolta, il colloquio con se stessi e la natura; idillico è ancora il sollevare l'umile realtà intorno a saè o il triste passato in una luce ferma e pura di mito.
A Silvia. Alle origini della lirica sta il ricordo di Teresa Fattorini, la figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta ancor giovane, di mal sottile, nel 1818. Teresa, qui, diventa Silvia, cioè una fanciulla che si affaccia lla giovinezza nei medesimi anni in cui la fiducia arrideva al cuore del poeta.
Silvia muore prima di giungere al fiore dei suoi anni, così come cade e muore la speranza prima che si faccia piena la giovinezza del poeta.
Silvia diventa il simbolo della speranza e del suo cadere. Silvia rappresenta la giovinezza e le illusioni che vengono infrante. ritratta nel suo ambiente familiare, il poeta si rivolge a Silvia come fosse ancora viva, ma in tono malinconico. Accusa la natura matrigna. Nel finale c'è l'amara constatazione che la realtà diverge dagli ideali della giovinezza.
Le ricordanze. L'inizio è dato dal nascere nel poeta di uno stato d'animo idillico, dallo stupore di rivedere rinascere in se stesso la capacità antica e perduta di contemplare i cieli e le stelle, le immagini che durante gli anni della fanciullezza avevano parlato così spesso al suo cuore. Non gli diceva il cuore che sarebbe stato dannato a consumare a Recanati, fra gente zotica, la sua giovinezza. il tempo giovanile vola più caro della fama e dell'alloro. Frattanto, dalla torre, sorge il suono dell'orologio. Il poeta viene portato nuovamente alla passata fanciullezza, trascorsa fra le mura paterne. Rievoca le speranze giovanili e Nerina, una dolce ragazza amata dal poeta.
L'idillio deriva da un incontro col passato più remoto e più dolce del poeta. Per Leopardi l'adolescenza e la giovinezza appaiono le uniche età immuni dal tedio, le età dei sogni luminosi, degli occhi liberi e vergini dinnanzi alle meraviglie del mondo; i colori stessi delle cose sono più vividi e luminosi; le capacità di vedere e di sentire appartengono ancora a un cuore intatto.
Più tardi, svaniti i sogni, l'unica possibilità per l'uomo di attingere alla commozione consisterà nella rievocazione delle sensazioni e dei moti della fanciullezza.
I ricordi non si susseguono seguendo uno svolgimento logico, ma sono innescati da sensazioni esterne, dalle immagini e dagli aspetti più vari di Recanati. si risolvono, infine, in un'immagine femminile, anch'essa simbolo della giovinezza, Nerina, morta e rimpianta come Silvia. Nerina assurge a incarnazione di quella figura femminile che gli uomini rinvengono al fondo dei loro ricordi.
In Nerina non figura nessun elemento che incrini la gioia e la luce. Nerina è la giovinezza pura, inseguita da Leopardi. Ricorre in tutto il canto la consapevolezza che le speranze e i sogni sono fantasmi vuoti, eppure così saturi di incanto, di bellezza, di dolcezza.
Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. Leopardi apprese, da alcune note di un viaggiatore russo, che molti kirghisi avevano l'abitudine di passare le notti seduti su una pietra a contemplare la luna, improvvisando parole assai tristi. Da questa notizia l'ispirazione per il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, in cui il poeta immagina che il pastore si rivolga direttamente alla luna e la interroghi circa il significato dell'esistenza, il dolore universale, lo scopo e le ragioni dell'universo. Il canto riflette un certo gusto dell'esotico, tipico del Romanticismo.. Leopardi dimostra di non avercela coi genitori per averlo messo al mondo, ma con la Natura. Viene fuori il tedio di Leopardi, che non è generica stanchezza.
Il poeta finirà coll'invidiare agli animali l'assoluta assenza di ogni sentimento del bene e del male.
La quiete dopo la tempesta. Il poeta, rinverdito e come snebbiato dalla pioggia, descrive il senso di gioia che è nel villaggio dopo la tempesta, quell'alacrità che subentra nell'animo di tutti i viventi, che è nelle cose medesime, quella maggiore nettezza di colori e di forme. La quiete dopo il temporale simboleggia la quiete dopo un dolore temporaneo: in fondo, quel poco di piacere di cui fruiscono gli uomini non deriva che dalla fine di un dolore; la morte, che porrà fine ad ogni male, è dunque, per l'uomo, il bene più grande.
Il sabato del villaggio. Si ricollega alla Quiete. Entrambi gli idilli furono composti nel settembre del 1829, in uno dei momenti di più felice ispirazione del poeta. Anche in questi versi, l'autore coglie un momento della vita del borgo: le ultime ore del sabato, l'animazione del villaggio alla vigilia della festa, la distensione tranquilla degli animi. Come il precedente, anche questo idillio è seguito da un commento morale, da una riflessione di natura filosofica. Il sabato è migliore della domenica, il piacere consiste nel futuro. Il piacere consiste o nella fine del dolore o nell'aspettativa di un bene: mai nel presente effettivo.
Il poeta si rivolge, negli ultimi versi, a un ideale giovinetto, anzi a un adolescente e gli confida che non si deve dolere se la piena sua giovinezza non è ancora giunta, se la festa della sua vita appare ancora lontana. Meglio che essa ritardi, perché è nell'attesa la gioia più vera e intensa.
Il passero solitario. Serve da prefazione agli idilli. Il canto è diviso in tre strofe, la prima e la seconda in cui si traccia il confronto fra il passero solitario e il poeta; la terza invece, in cui vengono indicate le differenze. Come il passero vive solitario e, pensoso, contempla il tripudio dei compagni e canta in disparte dall'alto della torre, così il poeta, mentre il paese è in festa, esce solitario alla campagna e rimanda ad altro tempo giochi e diletti. Ma, giunto alla fine della sua vita, il passero non si dorrà della sua solitudine, essa deriva dall'istinto, è frutto della natura; diversamente il poeta rimpiangerà di aver gettato il tempo migliore e si volgerà senza conforto al passato.
Ciclo di Aspasia
Gli ultimi componimenti di Leopardi si presentano un po' diversi dai precedenti: la riflessione e il ragionamento prevalgono sulla rappresentazione del paesaggio. Il poeta evidenzia un animo più combattivo e più energico. Alcuni di questi componimenti vanno sotto il nome di Ciclo di Aspasia, legato all'ultimo amore di Leopardi, la Targioni Tozzetti. Si rinuncia alla contemplazione della natura, con un'accettazione virile del reale.
A se stesso. Emerge quell'accento virile con il quale il poeta scaccia ogni moto dell'animo e invita se stesso a non palpitare più, a cessare la disperazione medesima.
Poetica leopardiana o dell'idillio
Leopardi accetta la proposta di Madame de Stael di leggere gli autori stranieri, ma non di imitarli. Egli rivolge un invito a leggere gli antichi. Leopardi sottolinea il sentimento. L'idillio è per lui l'espressione dei moti del suo animo. C'è il rifiuto della mitologia e della bella immagine. Vago, indeterminato, infinito sono i principi di Leopardi. Non ci deve essere scientificità. Una condizione della poesia è la rimembranza, perché il ricordo sfuma i contorni, dilata i termini reali e concreti. La poesia di Leopardi è intrisa di Romanticismo. La poesia nasce dal sentimento (poetica idillica). I dati costitutivi della poesia di Leopardi sono:
- momento contemplativo;
- momento riflessivo.
Un altro principio poetico è che la poesia non sia trascrizione esatta della realtà, ma esprima il senso del vago, dell'indeterminato, dell'infinito. Ciò si può realizzare con il ricordo. L'altro mezzo è l'impiego di termini poetici. Una poetica fondata su questi principi è detta romantica. In quanto rifiuta i generi, la mitologia, tutte le regole di poetica precedentemente elaborate. E si basa soprattutto sul sentimento.
Leopardi e il suo tempo.
Espressione di giovanile entusiasmo, di sentimento patriottico è la canzone all'Italia. Ma non c'è in Leopardi una vera concezione di patria. C'è invece l'amara delusione per i moti del 1820-21. Egli finisce per non occuparsi più della storia e della società in cui vive, ma sempre più di se stesso. La usa adesione politica era frutto di entusiasmo. Dopo, egli si chiuse in se stesso. Rifiuta la scienza. Ancora più feroce il suo disprezzo per la tecnica. L'uomo non deve inventare dei parafulmini, ma dei parainvidia, dei paraegoismi, qualcosa insomma che lo soccorra spiritualmente. Egli si scaglia contro la cultura di massa, contro le gazzette, lo spiritualismo, le tendenze filosofiche di comodo.
L'ultima fase del suo pensiero è una sorta di "progressismo" leopardiano (significato della ginestra, dialogo di Plotino). Gli uomini devono unirsi (ma non ne vengono indicati i mezzi). Bisogna superare le ingiustizie di classe, il dominio straniero. L'idea leopardiana appare valida, ma non supportata da indicazioni politiche. Leopardi è un democratico pre-politico, non concretamente configurato in una ideologia.
Il pensiero di Leopardi.
Il pensiero leopardiano non ha uno sviluppo organico e sistematico, perché non si forma in una pura sfera mentale e astratta, ma vive in relazione col sentimento; quindi, da una parte le conclusioni cui perviene sono una conferma logica, una convalida razionale di intuizioni e moti sentimentali, dall'altra queste stesse conclusioni razionali provocano profonde risonanze affettive.
In definitiva il pensiero leopardiano rimane escluso dal puro momento della scientificità, intrinseco alla filosofia, ma è sempre connesso con le concrete e reali situazioni umane e storiche.
Questa relazione fra filosofia, sentimento e cultura giustifica la maniera personale con cui Leopardi interpreta le tendenze filosofiche del Settecento. Il problema centrale è quello della felicità. La tendenza naturale dell'uomo. In cosa consiste?
1. Adeguamento della realtà ai desideri, alle aspirazioni; nella sintesi ideale-reale.
2. Nella durata senza termine.
L'esperienza dimostra il contrario: la realtà non corrisponde mai alle aspirazioni; tutte le cose hanno un'esistenza limitata. Leopardi fa questa constatazione non soltanto sulla base della propria personale esperienza, ma su quella che è stata definita (Timpanaro) "la delusione storica": il crollo del mito della ragione, del fiducioso ottimismo illuministico.
La ragione doveva distruggere per sempre la barbarie, la superstizione, instaurare l'uguaglianza e la democrazia, riportare a un giusto e sano equilibrio con la Natura; ma la ragione ha fallito: la rivoluzione da essa prodotta si è trasformata nel dispotismo napoleonico e nella Restaurazione.
La ragione ha conseguito un solo scopo: ha smascherato il vero volto della realtà. Quindi la prima risposta al problema della felicità è il riconoscimento di una incomponibile antitesi:
grandezza <-----> piccolezza
illusioni <-----> ragione
ansia d'infinito <-----> limiti del reale
Natura <-----> uomo
La Natura buona concede le illusioni, che costituiscono la sola felicità possibile. C'è quindi un'epoca dell'umanità, un'età del singolo, non priva di qualche forma di felicità, perché non priva di illusioni. Poi la ragione mostra il vero. Questo rappresenta il cosiddetto "pessimismo storico", che non è ancora a rigore, pessimismo, perché non si è ancora assolutizzato ed eretto a sistema e riconosce un qualche valore di felicità all'illusione.
A tali conclusioni erano possibili due sbocchi:
1) Contrapporre alla ragione la fede in un mitico regno dello spirito, in un Dio causa e fine della realtà e della vita.
2) Portare fino in fondo l'analisi razionale del rapporto uomo-Natura, in termini totalmente demistificati.. In Leopardi è troppo sviluppato il razionalismo per ricorrere alla scappatoia religiosa, troppo radicate le tendenze scettiche, atee, materialistiche del suo tempo; vengono ad aggiungersi le cagionevoli condizioni di salute, che dovevano fargli sentire acutamente il condizionamento della Natura sull'uomo e la situazione storica.
La sua analisi, perciò, prosegue in termini rigorosamente razionali raggiungendo conclusioni definitivamente negative:
1) La Natura non ha dato agli uomini una felicità obiettiva, ma soltanto una felicità velata. Non madre pietosa, ma maligna matrigna, perché ci ha fornito lo strumento che toglie il velo alla felicità e cioè la ragione; la Natura è indifferente alla sorte dell'uomo perché l'universo è un perenne ciclo di distruzione della materia, di cui non si conoscono la causa e il fine.
2) Nessuna cosa è assolutamente necessaria; nessuna cosa è, veramente. Il principio delle cose è il nulla (teologia negativa). Alla scoperta dell'assoluta negatività dell'esistenza segua la constatazione che anche la felicità non esiste, non è. Si identifica con la non-realtà dell'illusione e perciò è solo futura, come sogno o speranza, o solo passata, come ricordo delle antiche illusioni. L'unica realtà è la non-felicità, il dolore, il male o la spaventevole sensazione fisica del nulla universale (noia). A questa nuova considerazione del rapporto uomo-Natura segue una nuova, capovolta, valutazione della ragione: non più facoltà limitatrice, negativa, ma anzi l'unico valore e l'unica forza cui l'uomo possa appoggiarsi per essere veramente se stesso, fuori dalla paura e dal compromesso.
L'uomo deve accettare con virile fermezza e con coerenza tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera. La religione negativa non produce sgomento o rinuncia, ma ribellione, che chiama tutti gli uomini a stringersi contro la cieca crudeltà della Natura in una nuova fraternità. Questo messaggio è il contenuto de La ginestra
Giacomo Leopardi nacque nel 1798 a Recanati,piccolo paese delle marche,che allora apparteneva allo stato pontificio.Suo padre, il conte Monardo,era un uomo di cultura,ma molto conservatore,sua madre la marchesa Adelaide Antici era una donna dal carattere rigidoe dedicò le sue energie a ricostruire il patrimonio familiare al quanto dissestato.
Il piccolo Giacomo iniziò gli studi sotto la guida di due sacerdoti,ma ben presto,a soli 11 anni, proseguì da solo gli studi avvalendosi della ricchissima biblioteca paterna.
Ben presto matura nel giovane Leopardi una nuova sensibilità che lo porta a lasciare gli studi filologici e a convertirsi alla letteratura.
Intanto partecipa alla polemica tra i classicisti e i romantici. Conosce in seguito Pietro Giordani che rappresenta per il giovane poeta una guida preziosa sia sul piano intelletuale che umano.
Man mano che passano gli anni il poeta sente l'insofferenza per l'atmosfera chiusa e arretrata del suo ambiente familiare e tenta la fuga dalla casa paterna. Il falimento di tale fuga,costituì un motivo di profonda infelicità umana.
Il poeta nel momento in cui avverte la difficoltà e l'infelicità personale matura una forma di pessimismo il quale viene definito pessimismo storico. Egli sostiene che la natura ha creato gli uomini felici,mentre col progredire della civiltà la ragione li ha resi deboli e infelici,infatti,la ragione distrugge i sogni e le illusioni.
L'uomo man mano che diventa adulto,aumenta la sua capacità di ragionare,distaccandosi dalla condizione naturale della sua infanzia.
Nel novembre del 1822 Leopardi finalmente abbandonò Recanati e andò a Roma dallo zio Carlo Antici. Ma il soggiorno romano si rivelò una vera delusione. Torna a Recanati dove scrive "LE OPERETTE MORALI".
Nel 1825 il poeta si trasferisce a Milano; nel '27 andò a Firenze dove conobbe Alessandro Manzoni. Nel 1828 il poeta torna a Recanati e nel '30 conosce Antonio Ranieri,nobile napoletano con cui strinse un'amicizia che durò sino alla morte. Vive ospite dall'amico Ranieri tra Napoli e Torre del Greco,alle falde del Vesuvio e qui morì nel1837 all'età di 39 anni.
Leopardi fu essenzialmente un lirico incline a esplorare se stesso e a sviluppare una sua storia interiore e quindi non fece parlare molto personaggi diversi da lui. E questo perché in quegli anni Leopardi e altri lirici avevano intrapreso una strada che portava a una concezione nuova dell'arte, non più legata ad un contesto generale e universalizzato, espressione di comportamento sociale, ma come libero sfogo degli stati d'animo individuali, appunto nella loro individualità irripetibile. Tale concezione nuova era legata agli aspetti di fondo dell'età: il venire meno dell'aristocrazia; il prevalere dei modi borghesi di concepire arte e vita; la necessità di esprimere i diritti dell'individuo contro i fatti che potessero comprimerlo; il ripiegarsi su se stesso dell'uomo, tutto preso da "una morsa di cose più grandi di lui". Così come il romanzo si affermava come genere atto a cantare l'epopea morale e sociale del mondo borghese, la lirica celebrava i diritti dell'individuo, la sua vita interiore, la ribellione contro una società che non gli permetteva sempre di espandersi liberamente.
Quindi la biografia è molto importante per un lirico ed in Leopardi essa si fonde con l'arte. La vita del Leopardi va divisa in momenti diversi, in ognuno dei quali è presente una fase dello sviluppo intellettuale e sentimentale del poeta stesso e un momento della sua opera. Anche nei luoghi, biografia e lirica si fondono, specie per quanto riguarda Recanati ("il natio borgo selvaggio"), dove Leopardi visse la maggior parte della sua vita. Ma i luoghi in cui visse furono normalissimi, quindi fu la sua immensa potenza lirica a trasfigurarli in miti poetici altissimi, tanto che sembra quasi che senza quei luoghi sia impossibile comprendere il Leopardi.
Rapporto vita-opera
L'ambiente familiare giovanile fu affettivamente povero, la madre era severa e presa totalmente da problemi pecuniari. La cultura di Giacomo era vastissima, lo studio "matto e disperatissimo", è interessato da ogni cosa.
Ha una prima fase, cosiddetta di erudizione, in cui compone due opere importanti: Storia dell'astronomia, che riflette il suo amore per le stelle, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (un'opera dall'ispirazione illuminista, contro l'ignoranza e le superstizioni del popolo).
Compie traduzioni importanti e studi filologici.
Nel 1819 vive una profonda crisi e si avvicina alla poesia. Conosce un purista, Pietro Giordani, che lo spinge ad uscire dall'ambiente chiuso in cui vive. Conosce l'amore, platonico e idealizzato, per una cugina. Passa dalla poesia dell'immaginazione a quella del sentimento.
Nella polemica fra classici e romantici, si schiera coi classici, considerando il romanticismo gusto eccessivo dell'orrido.
Compone due canzoni, All'Italia e Sopra il monumento di Dante, che esprimono un amore sentimentale verso la patria, letterario più che politicamente attivo. influenzato da Petrarca, esalta il passato e disprezza il presente.
La ragione, mettendo a nudo il reale, scopre il lato doloroso di esso (in Alla primavera, il credere alle favole diventa motivo di felicità).
Durante la crisi matura la sua concezione pessimistica della vita, influenzata dalle esperienze personali e compie il distacco dalla fede religiosa.
Intraprende un deludente viaggio a Roma, facendogli sperimentare il penoso scollamento fra sogno e realtà, che continuerà anche in altri tentativi di "fuga", seguiti da ritorni a Recanati.
Conobbe difficoltà economiche e altri amori, che sfociarono in una demitizzazione della donna (Aspasia).
Fece una sola raccolta di Canti; essi vennero però divisi per contenuto e forma:
1) dieci canzoni civili (Angelo Mai, Primavera, All'Italia);
2) primi idilli (Infinito, Alla luna);
3) il Passero solitario rappresenta il passaggio dai primi idilli ai grandi idilli;
4) 1823-24: le Operette morali e poi il ritorno alla poesia con altri canti (grandi idilli, per distinguerli dai primi: A Silvia ecc.)
Canzoni
Ispirate da fatti occasionali o da esperienze familiari, vi troviamo due tendenze:
a) civile;
b) sentimentale.
Leopardi è alla ricerca di una sua personale forma espressiva. Dopo l'incontro col Giordani, Leopardi sembra prendere parte alla vita politica presente, anche se mai, oltre a non partecipare direttamente alla vita politica, dimostra un ideale di patria. Insiste molto, specie in Angelo Mai, sul contrasto fra il passato, esaltato e il presente, condannato (Angelo Mai con le sue scoperte filologiche fa rivivere i tempi gloriosi del Rinascimento, le opere di Dante e Petrarca, Ariosto, Tasso e Alfieri).
Arriva all'amara conclusione che è inutile la lotta.
Zibaldone.
Fu composto fra il luglio del 1817 e il dicembre del 1832. Su questo scartafaccio lasciato inedito sta tutto il lavorio di sistemazione del pensiero del Leopardi. Contiene un grandissimo numero di pensieri, appunti, ricordi, osservazioni, note, conversazioni e discussioni. Si tratta di filosofia, letteratura, politica, uomo, nazioni, universo. Sono considerazioni poi liberissime e senza preoccupazioni, come di tale che scriveva di giorno in giorno per se stesso e non per gli altri.
Libro moderno, ancor oggi la sua lettura è fonte inesauribile di stimoli e riflessioni.
Idilli
Vennero pubblicati nel 1826. Si tratta di sei liriche: L'Infinito; La sera del dì di festa; Alla luna; Il sogno; Lo spavento notturno; La vita solitaria.
Il titolo, desunto da Mosco, era adoperato nel senso greco di quadretto. Cadono, negli Idilli, le costruzioni artificiose della canzone, con le sue strofe tutte uguali e le sue rime ripetute e subentrano gli endecasillabi sciolti. Cadono i temi occasionali, desunti dalla storia o da vicende esterne e subentrano temi o occasioni interiori, scaturiti da situazioni quotidiane. E scompaiono i ricordi e i richiami di cultura, l'erudizione accumulata con tanta fatica e resta solo il succo di quel tanto sapere, la lezione della vanità delle cose.
L'infinito. E' il primo di quei componimenti che il poeta pubblicò nel 1825 col nome di Idilli. L'idillio leopardiano si distingue profondamente da quello della tradizione; non è più un quadretto bucolico, un componimento piacevole di ispirazione pastorale, ma l'espressione poetica di un'avventura interiore, di un moto dello spirito, nato dalla contemplazione nuova ed attonita dei un aspetto della Natura o della rinnovata capacità di sentire e vedere.
Che l'idillio leopardiano sia trasferito tutto nel soggetto e la Natura vi compaia solo come stimolo e occasione, rivela meglio di ogni altro L'infinito.
Gli elementi esteriori si riducono ad un colle, ad una siepe che limita l'orizzonte, ad uno stormire di fronde. Ma da questi motivi, quale contemplazione stupita dell'infinito, quali sillabe eterne.
Sulla cima di un colle una siepe impedisce allo sguardo la vista di una grande parte dell'orizzonte. Ma quello che è ostacolo alla vista degli occhi diviene stimolo alla visione interiore, all'immaginazione del poeta. E sorgono dentro di lui gli interminati spazi del cielo e i sovrumani silenzi e la profondissima quiete del vuoto e quasi il cuore del poeta si spaura e ritrae da quel nulla. E da quella voce il poeta è ricondotto alle cose finite e al confronto di esse con l'eterno, al pensiero delle morte stagioni e della stagione presente, così viva, così reale, con i suoi rumori intorno al poeta, eppure destinata a disperdersi, a svanire, inafferrabile anzi e sparente nell'atto stesso che trascorre.
La ricerca logica dell'infinito si conclude nel Leopardi con uno "scacco". Se il breve canto termina con una punta di dolcezza, ciò avviene solo perché il Leopardi rinuncia all'indagine e dove la ragione fallisce, il recupero avviene tramite l'abbandono a uno stato sentimentale, o meglio di natura mistico-religiosa.
La sera del dì di festa. Il primo motivo poetico dell'idillio è il vagheggiamento di una quieta notte lunare. Emerge chiaramente in tutto l'idillio il pessimismo di Leopardi.
Il secondo motivo poetico che si può rilevare è quello del canto notturno che si disperde nella campagna e muore poco a poco, allontanandosi.. Un idillio, anche questo, che reca con sè il senso della fugacità, del trapassare e spegnersi di ogni vaghezza. Un idillio cui si accompagna la rimembranza, cioè la capacità di rinvenire nelle contemplazioni attuali gli stupori, gli incanti e le malinconie degli anni passati.
Alla luna. L'idillio è tutt'uno, in ogni sillaba, con la rimembranza, cioè con il ricordo delle contemplazioni passate. Il poeta contempla la luna dalla cima del monte Tabor e ricorda che allo stesso modo saliva a contemplarla l'anno precedente e che il volto dell'astro appariva nebuloso e tremulo attraverso le sue lacrime; nè minori o diverse sono oggi le sue pene. Eppure come dolce e gradito è negli anni giovanili il ricordo di ogni cosa passata ancora che triste e che l'affanno continui.
Operette morali.
Nel 1824, in parte rielaborando pensieri già annotati nello Zibaldone, in parte sviluppando idee precedenti, in parte inventando originalmente, Leopardi scrisse con foga crescente alcune prose fra satiriche, fantastiche e filosofiche, prose che uscirono in volume nel giugno del 1927 col titolo di Operette morali.
Negli anni successivi al 1824, ner aggiunse alle venti già scritte altre cinque operette, scritte in epoche diverse.
Dialogo della Natura e di un Islandese. Vi compare per la prima volta, condotto sino all'estremo delle sue conclusioni, il "pessimismo cosmico" di Leopardi.
La Natura non è più considerata la "madre benigna" degli esseri viventi; i colpevoli non sono più gli uomini che hanno deviato volontariamente dalle leggi naturali, ma la Natura sempre e dovunque indifferente se non ostile ad ognuno dei suoi figli, incapace di procurar loro quella felicità che è nel fine di ogni vivente.
Cantico del gallo silvestre. Leopardi si ricollega ad alcune tracce di una sperduta leggenda di derivazione biblica. Immagine l'esistenza di un immenso gallo selvatico, che risiede fra il cielo e la terra e finge di aver ritrovato una cartapecora antica, in cui sono riprodotte le parole che il gallo rivolge agli uomini ad ogni rinnovarsi del giorno. A ogni alba il gallo spinge gli uomini a svegliarsi e a riprendere il peso doloroso della vita e li assicura che verrà un giorno in cui potranno giacere immobili per sempre nella quiete del sonno; l'universo intero precipiterà infine nel buoi, prima che nessuno abbia potuto comprendere le ragioni della sua esistenza, l'arcano mirabile e spaventoso della vita.
L'invenzione del gallo silvestre testimonia di quel gusto del bizzarro, del peregrino, dell'umoresco che informa le Operette; ma la materia è senza dubbio fra le più dolenti e severe del Leopardi.
Dialogo di Tristano e di un Amico. Il poeta si difende dall'accusa di aver formulato le sue teorie pessimistiche in conseguenza dei mali fisici. Sul finire del dialogo, il poeta si distacca da ogni accento polemico ed esprime l'infelicità del proprio animo e il proprio desiderio di morte.
Dialogo di Plotino e di Porfirio. Il poeta finge di riprodurre i discorsi che il filosofo Plotino tenne al discepolo Porfirio per distoglierlo dall'idea del suicidio; scrive alcune fra le righe più malinconiche e dolci del suo libro.
Il suicidio può anche apparire conforme al pessimismo leopardiano, giustificato, un gesto di natura eroica, di ribellione o di sfida; tuttavia contrasta con le voci più intime e segrete dell'animo, con quel senso profondo che ci lega ai nostri compagni, alla nostra sorte di uomini. Plotino non confuta le osservazioni teoriche del discepolo, ma parla mosso da quel senso dell'animo che vuole la collegazione fraterna, il rispetto e la pietà dei propri simili.
Grandi Idilli
Comprendono: A Silvia, Le ricordanze, Il sabato del villaggio, La quiete dopo la tempesta, Il passero solitario, Canto di un pastore errante dell'Asia.
Idillici sono i richiami costanti alla natura e a Recanati, il tono di intimità raccolta, il colloquio con se stessi e la natura; idillico è ancora il sollevare l'umile realtà intorno a saè o il triste passato in una luce ferma e pura di mito.
A Silvia. Alle origini della lirica sta il ricordo di Teresa Fattorini, la figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta ancor giovane, di mal sottile, nel 1818. Teresa, qui, diventa Silvia, cioè una fanciulla che si affaccia lla giovinezza nei medesimi anni in cui la fiducia arrideva al cuore del poeta.
Silvia muore prima di giungere al fiore dei suoi anni, così come cade e muore la speranza prima che si faccia piena la giovinezza del poeta.
Silvia diventa il simbolo della speranza e del suo cadere. Silvia rappresenta la giovinezza e le illusioni che vengono infrante. ritratta nel suo ambiente familiare, il poeta si rivolge a Silvia come fosse ancora viva, ma in tono malinconico. Accusa la natura matrigna. Nel finale c'è l'amara constatazione che la realtà diverge dagli ideali della giovinezza.
Le ricordanze. L'inizio è dato dal nascere nel poeta di uno stato d'animo idillico, dallo stupore di rivedere rinascere in se stesso la capacità antica e perduta di contemplare i cieli e le stelle, le immagini che durante gli anni della fanciullezza avevano parlato così spesso al suo cuore. Non gli diceva il cuore che sarebbe stato dannato a consumare a Recanati, fra gente zotica, la sua giovinezza. il tempo giovanile vola più caro della fama e dell'alloro. Frattanto, dalla torre, sorge il suono dell'orologio. Il poeta viene portato nuovamente alla passata fanciullezza, trascorsa fra le mura paterne. Rievoca le speranze giovanili e Nerina, una dolce ragazza amata dal poeta.
L'idillio deriva da un incontro col passato più remoto e più dolce del poeta. Per Leopardi l'adolescenza e la giovinezza appaiono le uniche età immuni dal tedio, le età dei sogni luminosi, degli occhi liberi e vergini dinnanzi alle meraviglie del mondo; i colori stessi delle cose sono più vividi e luminosi; le capacità di vedere e di sentire appartengono ancora a un cuore intatto.
Più tardi, svaniti i sogni, l'unica possibilità per l'uomo di attingere alla commozione consisterà nella rievocazione delle sensazioni e dei moti della fanciullezza.
I ricordi non si susseguono seguendo uno svolgimento logico, ma sono innescati da sensazioni esterne, dalle immagini e dagli aspetti più vari di Recanati. si risolvono, infine, in un'immagine femminile, anch'essa simbolo della giovinezza, Nerina, morta e rimpianta come Silvia. Nerina assurge a incarnazione di quella figura femminile che gli uomini rinvengono al fondo dei loro ricordi.
In Nerina non figura nessun elemento che incrini la gioia e la luce. Nerina è la giovinezza pura, inseguita da Leopardi. Ricorre in tutto il canto la consapevolezza che le speranze e i sogni sono fantasmi vuoti, eppure così saturi di incanto, di bellezza, di dolcezza.
Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. Leopardi apprese, da alcune note di un viaggiatore russo, che molti kirghisi avevano l'abitudine di passare le notti seduti su una pietra a contemplare la luna, improvvisando parole assai tristi. Da questa notizia l'ispirazione per il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, in cui il poeta immagina che il pastore si rivolga direttamente alla luna e la interroghi circa il significato dell'esistenza, il dolore universale, lo scopo e le ragioni dell'universo. Il canto riflette un certo gusto dell'esotico, tipico del Romanticismo.. Leopardi dimostra di non avercela coi genitori per averlo messo al mondo, ma con la Natura. Viene fuori il tedio di Leopardi, che non è generica stanchezza.
Il poeta finirà coll'invidiare agli animali l'assoluta assenza di ogni sentimento del bene e del male.
La quiete dopo la tempesta. Il poeta, rinverdito e come snebbiato dalla pioggia, descrive il senso di gioia che è nel villaggio dopo la tempesta, quell'alacrità che subentra nell'animo di tutti i viventi, che è nelle cose medesime, quella maggiore nettezza di colori e di forme. La quiete dopo il temporale simboleggia la quiete dopo un dolore temporaneo: in fondo, quel poco di piacere di cui fruiscono gli uomini non deriva che dalla fine di un dolore; la morte, che porrà fine ad ogni male, è dunque, per l'uomo, il bene più grande.
Il sabato del villaggio. Si ricollega alla Quiete. Entrambi gli idilli furono composti nel settembre del 1829, in uno dei momenti di più felice ispirazione del poeta. Anche in questi versi, l'autore coglie un momento della vita del borgo: le ultime ore del sabato, l'animazione del villaggio alla vigilia della festa, la distensione tranquilla degli animi. Come il precedente, anche questo idillio è seguito da un commento morale, da una riflessione di natura filosofica. Il sabato è migliore della domenica, il piacere consiste nel futuro. Il piacere consiste o nella fine del dolore o nell'aspettativa di un bene: mai nel presente effettivo.
Il poeta si rivolge, negli ultimi versi, a un ideale giovinetto, anzi a un adolescente e gli confida che non si deve dolere se la piena sua giovinezza non è ancora giunta, se la festa della sua vita appare ancora lontana. Meglio che essa ritardi, perché è nell'attesa la gioia più vera e intensa.
Il passero solitario. Serve da prefazione agli idilli. Il canto è diviso in tre strofe, la prima e la seconda in cui si traccia il confronto fra il passero solitario e il poeta; la terza invece, in cui vengono indicate le differenze. Come il passero vive solitario e, pensoso, contempla il tripudio dei compagni e canta in disparte dall'alto della torre, così il poeta, mentre il paese è in festa, esce solitario alla campagna e rimanda ad altro tempo giochi e diletti. Ma, giunto alla fine della sua vita, il passero non si dorrà della sua solitudine, essa deriva dall'istinto, è frutto della natura; diversamente il poeta rimpiangerà di aver gettato il tempo migliore e si volgerà senza conforto al passato.
Ciclo di Aspasia
Gli ultimi componimenti di Leopardi si presentano un po' diversi dai precedenti: la riflessione e il ragionamento prevalgono sulla rappresentazione del paesaggio. Il poeta evidenzia un animo più combattivo e più energico. Alcuni di questi componimenti vanno sotto il nome di Ciclo di Aspasia, legato all'ultimo amore di Leopardi, la Targioni Tozzetti. Si rinuncia alla contemplazione della natura, con un'accettazione virile del reale.
A se stesso. Emerge quell'accento virile con il quale il poeta scaccia ogni moto dell'animo e invita se stesso a non palpitare più, a cessare la disperazione medesima.
Poetica leopardiana o dell'idillio
Leopardi accetta la proposta di Madame de Stael di leggere gli autori stranieri, ma non di imitarli. Egli rivolge un invito a leggere gli antichi. Leopardi sottolinea il sentimento. L'idillio è per lui l'espressione dei moti del suo animo. C'è il rifiuto della mitologia e della bella immagine. Vago, indeterminato, infinito sono i principi di Leopardi. Non ci deve essere scientificità. Una condizione della poesia è la rimembranza, perché il ricordo sfuma i contorni, dilata i termini reali e concreti. La poesia di Leopardi è intrisa di Romanticismo. La poesia nasce dal sentimento (poetica idillica). I dati costitutivi della poesia di Leopardi sono:
- momento contemplativo;
- momento riflessivo.
Un altro principio poetico è che la poesia non sia trascrizione esatta della realtà, ma esprima il senso del vago, dell'indeterminato, dell'infinito. Ciò si può realizzare con il ricordo. L'altro mezzo è l'impiego di termini poetici. Una poetica fondata su questi principi è detta romantica. In quanto rifiuta i generi, la mitologia, tutte le regole di poetica precedentemente elaborate. E si basa soprattutto sul sentimento.
Leopardi e il suo tempo.
Espressione di giovanile entusiasmo, di sentimento patriottico è la canzone all'Italia. Ma non c'è in Leopardi una vera concezione di patria. C'è invece l'amara delusione per i moti del 1820-21. Egli finisce per non occuparsi più della storia e della società in cui vive, ma sempre più di se stesso. La usa adesione politica era frutto di entusiasmo. Dopo, egli si chiuse in se stesso. Rifiuta la scienza. Ancora più feroce il suo disprezzo per la tecnica. L'uomo non deve inventare dei parafulmini, ma dei parainvidia, dei paraegoismi, qualcosa insomma che lo soccorra spiritualmente. Egli si scaglia contro la cultura di massa, contro le gazzette, lo spiritualismo, le tendenze filosofiche di comodo.
L'ultima fase del suo pensiero è una sorta di "progressismo" leopardiano (significato della ginestra, dialogo di Plotino). Gli uomini devono unirsi (ma non ne vengono indicati i mezzi). Bisogna superare le ingiustizie di classe, il dominio straniero. L'idea leopardiana appare valida, ma non supportata da indicazioni politiche. Leopardi è un democratico pre-politico, non concretamente configurato in una ideologia.
Il pensiero di Leopardi.
Il pensiero leopardiano non ha uno sviluppo organico e sistematico, perché non si forma in una pura sfera mentale e astratta, ma vive in relazione col sentimento; quindi, da una parte le conclusioni cui perviene sono una conferma logica, una convalida razionale di intuizioni e moti sentimentali, dall'altra queste stesse conclusioni razionali provocano profonde risonanze affettive.
In definitiva il pensiero leopardiano rimane escluso dal puro momento della scientificità, intrinseco alla filosofia, ma è sempre connesso con le concrete e reali situazioni umane e storiche.
Questa relazione fra filosofia, sentimento e cultura giustifica la maniera personale con cui Leopardi interpreta le tendenze filosofiche del Settecento. Il problema centrale è quello della felicità. La tendenza naturale dell'uomo. In cosa consiste?
1. Adeguamento della realtà ai desideri, alle aspirazioni; nella sintesi ideale-reale.
2. Nella durata senza termine.
L'esperienza dimostra il contrario: la realtà non corrisponde mai alle aspirazioni; tutte le cose hanno un'esistenza limitata. Leopardi fa questa constatazione non soltanto sulla base della propria personale esperienza, ma su quella che è stata definita (Timpanaro) "la delusione storica": il crollo del mito della ragione, del fiducioso ottimismo illuministico.
La ragione doveva distruggere per sempre la barbarie, la superstizione, instaurare l'uguaglianza e la democrazia, riportare a un giusto e sano equilibrio con la Natura; ma la ragione ha fallito: la rivoluzione da essa prodotta si è trasformata nel dispotismo napoleonico e nella Restaurazione.
La ragione ha conseguito un solo scopo: ha smascherato il vero volto della realtà. Quindi la prima risposta al problema della felicità è il riconoscimento di una incomponibile antitesi:
grandezza <-----> piccolezza
illusioni <-----> ragione
ansia d'infinito <-----> limiti del reale
Natura <-----> uomo
La Natura buona concede le illusioni, che costituiscono la sola felicità possibile. C'è quindi un'epoca dell'umanità, un'età del singolo, non priva di qualche forma di felicità, perché non priva di illusioni. Poi la ragione mostra il vero. Questo rappresenta il cosiddetto "pessimismo storico", che non è ancora a rigore, pessimismo, perché non si è ancora assolutizzato ed eretto a sistema e riconosce un qualche valore di felicità all'illusione.
A tali conclusioni erano possibili due sbocchi:
1) Contrapporre alla ragione la fede in un mitico regno dello spirito, in un Dio causa e fine della realtà e della vita.
2) Portare fino in fondo l'analisi razionale del rapporto uomo-Natura, in termini totalmente demistificati.. In Leopardi è troppo sviluppato il razionalismo per ricorrere alla scappatoia religiosa, troppo radicate le tendenze scettiche, atee, materialistiche del suo tempo; vengono ad aggiungersi le cagionevoli condizioni di salute, che dovevano fargli sentire acutamente il condizionamento della Natura sull'uomo e la situazione storica.
La sua analisi, perciò, prosegue in termini rigorosamente razionali raggiungendo conclusioni definitivamente negative:
1) La Natura non ha dato agli uomini una felicità obiettiva, ma soltanto una felicità velata. Non madre pietosa, ma maligna matrigna, perché ci ha fornito lo strumento che toglie il velo alla felicità e cioè la ragione; la Natura è indifferente alla sorte dell'uomo perché l'universo è un perenne ciclo di distruzione della materia, di cui non si conoscono la causa e il fine.
2) Nessuna cosa è assolutamente necessaria; nessuna cosa è, veramente. Il principio delle cose è il nulla (teologia negativa). Alla scoperta dell'assoluta negatività dell'esistenza segua la constatazione che anche la felicità non esiste, non è. Si identifica con la non-realtà dell'illusione e perciò è solo futura, come sogno o speranza, o solo passata, come ricordo delle antiche illusioni. L'unica realtà è la non-felicità, il dolore, il male o la spaventevole sensazione fisica del nulla universale (noia). A questa nuova considerazione del rapporto uomo-Natura segue una nuova, capovolta, valutazione della ragione: non più facoltà limitatrice, negativa, ma anzi l'unico valore e l'unica forza cui l'uomo possa appoggiarsi per essere veramente se stesso, fuori dalla paura e dal compromesso.
L'uomo deve accettare con virile fermezza e con coerenza tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera. La religione negativa non produce sgomento o rinuncia, ma ribellione, che chiama tutti gli uomini a stringersi contro la cieca crudeltà della Natura in una nuova fraternità. Questo messaggio è il contenuto de La ginestra
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